CORONAVIRUS
Bruno Cereghetti: “No alla frenesia di aprire. Scuole comprese”
“Non c’è alcuno studio serio che abbia dimostrato che i bambini, e quindi anche gli adolescenti, non siano vettori del virus. Solo in Svizzera si è ardito affermare il contrario. Aperture solo all’insegna dell’utilità sociale accresciuta”
TiPress/Samuel Golay
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02 MAGGIO 2020

di Bruno Cereghetti *

 

Sempre, nei momenti di crisi, al Paese vien chiesto di seguire in modo pedissequo gli indirizzi tracciati dal Governo. Ora affinchè tutti siano disposti a guardare, ma soprattutto a remare, nella stessa direzione occorre che la rotta sia ragionevole e condivisa. Quella tracciata dal Consiglio federale per fase di riapertura in situazione di Covid-19 non può esserlo in ragione sia della sua repentinità che, soprattutto, della sua ampiezza.

 Allora occorre richiamare l’OMS quando ammonisce che sbaglia chi pensa che il peggio sia alle spalle: il peggio deve infatti ancora venire. E qual è la radice di questo peggio? Semplice: la frenesia di aprire non appena la curva dei contagi si abbassa. Ma ben prima che si sia situata a zero per un tempo ragionevole (almeno dieci giorni).

Non per essere ripetitivi, ma la scienza orami insegna che il Covid-19 è particolarmente aggressivo e si diffonde facilmente – troppo facilmente - nella popolazione. Ma questo è il mestiere del virus, che anche lui, esattamente come noi, è programmato per rispondere alle leggi della sopravvivenza propria. La sua arma vincente è la possibilità di diffusione attraverso soggetti asintomatici, sia prima che dopo aver sviluppato la malattia. Quindi più si dismettono le misure di contenimento e più il virus circolerà.

 Ora se è vero che il lockdown non può durare all’infinito, anche perché altrimenti oltre all’economia generale che regge la società ci va di mezzo anche la salute mentale della popolazione, la riapertura, e quindi l’inevitabile fase di convivenza con il virus fino all’arrivo del vaccino, deve avvenire all’insegna dell’utilità sociale accresciuta e non solo in funzione di bisogni particolari, anche se di base nobili.

La definizione di apertura ai sensi dell’utilità sociale accresciuta, e non dell’utilità tout court, deve basarsi sul concetto di servizi veramente essenziali; e ciò in un’ottica di costante tutela della salute pubblica.

L’attenzione verso le risorse del sistema sanitario nella finalità di garantire la capacità degli ospedali di curare gli ammalati è condizione, sì, necessaria, ma non sufficiente. Occorre infatti tener presente che quando circola troppo il virus le persone non solo si ammalano, ma muoiono. E qui non c’è più nulla da fare a posteriori, ma molto a priori, nel senso di prevenire morti evitabili. Altrimenti le doglianze pubbliche che conseguono rischiano di essere solo lacrime di coccodrillo e esternazioni di circostanza.

Il motto per la riapertura all’insegna dell’utilità sociale accresciuta deve essere semplice: se un contagio in più è uno di troppo, un morto in più sono due di troppo.

In questo senso appare difficile capire, ma anche giustificare, certe aperture affrettate di prima istanza, come quelle di tatuatori o estetisti, di cui francamente, anche per l’estensione della domanda pubblica, non si vede l’essenzialità sociale di primaria levatura.

Ma anche certune aperture di seconda istanza, come bar e scuole; luoghi che si possono trasformare troppo facilmente in incubatori, e quindi vettori, del virus. Come si controllerà il rispetto di distanza sociale e affini nel corso di aperitivi che di regola sono all’insegna di allegra collettività? L’esperienza ci dice che la “ligidezza”, soprattutto in certe evenienze, non è peculiarità umana innata.

Ma al di là di questo, occorre ricordare che con il Sars-Cov2 basta una semplice svista personale per innescare un contagio di dimensioni catastrofiche. Basti pensare che tutta la pandemia in Europa si è sviluppata da un contagiato zero, approdato dalla Cina in Germania o forse in Lombardia. Le conoscenze attuali permetterebbero semmai di affievolire l’effetto, ma non di escludere la causa. Né, dunque, di evitare le conseguenti morti inappropriate che possono pertoccare anche persone terze o lontane.

 Per le scuole il discorso deve essere chiaro: non c’è alcuno studio serio che abbia dimostrato che i bambini, e quindi anche gli adolescenti, non siano vettori del virus. Solo in Svizzera si è ardito affermare il contrario. Ma ciò deve ormai appartenere al passato ed essere relegato a una sortita infelice ed azzardata. Ci ha pensato del resto la Task Force Covid-19 della Confederazione, in uno studio di questi giorni, a chiarire in via definitiva che allo stadio attuale è scientificamente errato supporre che i bambini non trasmettano il virus Sars-Cov2, da cui il principio di precauzione deve essere la posizione appropriata in materia.

Principio di precauzione che deve portare ad affrontare la questione, pur importante e nobile, della riapertura delle scuole in là nel tempo, dopo che si saranno approfondite le misure logistiche e di rispetto delle distanze sociali, ma anche le inflessioni pedagogiche e didattiche riferite a classi ridotte e a un numero limitato di ore di lezione in presenza.

Questo è in sostanza quello che proviene dalla comunità scientifica internazionale. Ai consessi istituzionali darvi un seguito logico. E alla società civile vigilare con attenzione, ossia rifuggendo l’attitudine del gregge, che è atteggiamento pubblico sempre improvvido. E ciò anche nei periodi di crisi.

* ex responsabile Ufficio assicurazione malattia

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