CRONACA
A 21 giorni dalla frana. La civiltà dei frontalieri di fronte all'Italia del Cacao Meravigliao... Ma dategli una risposta a 'sta gente! Racconto dell'odissea quotidiana all'imbarcadero di Cannobio
Chiedo a un gruppo di ragazzi: ma non siete incazzati? Uno di loro alza lo sguardo e mi dice: “E a che serve? A farti sangue amaro durante il viaggio di andata e di ritorno? E a viver male la giornata di lavoro?"
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CANNOBIO – Parlano sottovoce. Quasi sussurrando. C’è silenzio, non schiamazzo, tra quella gente che affronta la sua odissea quotidiana. Ma c’è anche tanta umiltà, che è una lezione da prima elementare per chi pensa di essere sempre al centro (se non padrone) dell’universo.

Ed è anche una grande lezione di civiltà di fronte all’ennesima prova di inciviltà istituzionale e politica da parte di chi gestisce, o dovrebbe gestire, la pubblica amministrazione. Di fronte alla solita Italia da Cacao Meravigliao… Ma ditegli qualcosa a ‘sta gente! Dategli un termine, una data. Dategli una risposta!

Il titolo potrebbe essere, parafrasando Louis-Ferdinand Céline, “Viaggio al termine della sopportazione”.

È stanca, quella gente, glielo si legge negli occhi. E probabilmente non ha più voce da sprecare. Tanto non cambia nulla a strillare. La tiene per le cose che contano davvero, la voce. È stanca, quella gente, dopo una giornata di lavoro che per molti di loro è iniziata all’alba e finirà a tarda sera, con una cena riscaldata. Stanca di tollerare, forse. Ma tollera, e sopporta ancora. Perché la vita gli ha insegnato a farlo.

 Noi, da questa parte “figa” della “ramina”, saremmo già in piazza a gridare allo scandalo. Saremmo già sommersi da atti parlamentati e da editoriali al vetriolo, da presìdi, da sindacalisti volanti, da petizioni, da starnazzi pre-elettorali, e alzeremmo al cielo come ragli dita e voci contro il malgoverno.

Invece di quella folla silenziosa assembrata davanti al pontile dell’imbarcadero di Cannobio illuminato dalla fioca luce dei lampioni, non gliene frega niente a nessuno. Come scriveva uno di loro sui social: “A me sembra che di noi non interessa a nessuno”.

Sono stanchi, ma prima di pulirsi le scarpe sullo zerbino e di varcare la soglia di casa c’è ancora un bel viaggio da fare: bisogna circumnavigare quella maledetta frana, la stessa che due anni fa uccise un farmacista di Vacallo che passava sotto la parete di roccia in sella alla sua moto. Tra Cannobio e Cannero. Statale 34. 

Sono stanchi, questi frontalieri così vituperati e demonizzati, ma sono, soprattutto, soli. E indifesi.

Forse sono indignati e incazzati dentro, e anche tanto. Ma nei loro sguardi vedi solo rassegnazione: che cosa possiamo fare se non aspettare il battello?, si chiedono…

 Certo: la rassegnazione è l’altra faccia della luna, il dark side of the moon dell’umiltà. È forse troppo induista o troppo zen per gli adoratori del Vitello d’Oro, è un pericoloso spiraglio che apre la porta alla supina accettazione, e questo non va bene.

 Però, c’è in quella rassegnazione una capacità di resistere e di soffrire e di sopportare che ricorda il magistrale discorso del Colonnello Kurtz in Apocalypse Now sui Vietcong: “Se avessi avuto dieci divisioni di uomini così…”.

 Ecco, la sagoma del battello si staglia nel buio della sera e avanza lentamente scivolando sul lago calmo e nero verso l’imbarcadero come una metallica Balena Bianca. Attracca facendo vibrare il pontile mentre le eliche creando vortici di schiuma bianca.

Prima di salire bisogna far scendere quelli che ci sono a bordo. Alcuni vanno al lavoro serale, altri tornano da Verbania con qualche borsa della spesa.

 Loro, i frontalieri, saranno centocinquanta, attendono pazientemente, sempre in silenzio, di poter salire a bordo della motonave delle 17,45. Qualcuno si ripara dal freddo nella sala d’aspetto. Qualcuno chiede informazioni alla biglietteria: “Novità?”. “Non sappiamo”, è la risposta. Scontata.

 Stasera comunque ci staranno tutti sul battello delle 17,45, perché non c’è  troppa ressa: molti avranno fatto la Vigezzina in auto, ma solo perché il meteo è clemente.

 Questa sera nessuno resterà a terra ad aspettare il prossimo battello, che a Verbania arriva alle 20,30, dopo aver fatto tappa a Luino, dall’altra parte del lago. Ma quando arrivi lì non sai mai quanta gente trovi e se ti faranno salire. In alternativa ci sono diversi battellini privati, che partono dai moli del lungolago, ma vanno soltanto fino a Cannero, e solo se non c’è burrasca.

 Chiedo a un gruppo di ragazzi: ma non siete incazzati? Uno di loro alza lo sguardo e mi dice: “E a che serve? A farti sangue amaro durante il viaggio di andata e di ritorno? E a viver male la giornata di lavoro? A che serve incazzarsi? A nulla. È così e basta. Aspettiamo che riapra la strada e speriamo che riapra presto”.

 E poi con chi dovrebbero incazzarsi? Qui non sai nemmeno a chi rivolgerti, a chi appellarti, a chi chiedere, non sai nemmeno chi mandare affanculo.

 Qualche anno fa un gruppo di frontalieri fece un’esposto alla Procura di Verbania, cercando di richiamare lo Stato alle proprie responsabilità su quella strada fragile e sciagurata che incombe sulla vita di chi ogni giorno la percorre. Ma l’esposto è finito in qualche cassetto.

 È l’Italia del Cacao Meravigliao. Ma non sono loro - questa gente che ogni giorno si danna l’anima per portare a casa uno stipendio dignitoso e per tenersi stretto un lavoro che a casa sua non ha più - i colpevoli di questo degrado. Loro sono le vittime. E questa frana è la metafora del loro “mestiere” e della loro vita di frontalieri, mentre il vicepremier Matteo Salvini si occupa di litigare con Rino Gattuso per i risultati del Milan.

 “Ma non vi dicono nulla? Nessuna informazione su quando riaprirà la strada?”, chiedo. Nulla, risponde il giovane frontaliere. “Non sappiamo proprio nulla”.

 E sono passati ventun giorni. Così. Ventun giorni da quando una frana è scesa sulla statale del lago Maggiore, tra Cannobio e Cannero. E la strada è ancora chiusa. E fino a quando non si sa…

 

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