Torna la rubrica festivaliera sul Pardo di Liberatv e si va subito in Piazza Grande....
Dura la vita dell’ippopotamo. L’anno scorso qui al festival la cerbera locale della settima arte ci aveva bacchettati per aver scritto che i figli, in genere, sono i veri difensori del vincolo matrimoniale (prima e più della stessa Chiesa cattolica). A noi sembrava ovvio (e lo sembra tuttora), oltre che trucemente asseverato dalla trama di un film austriaco visto in Piazza Grande. Quest’anno, raggiunta trafelati la Piazza per la prima proiezione della 72° edizione (prima dell’era Hinstin), ci arriva addosso un film italiano (“Magari”, opera prima di Ginevra Elkann) che non fa che confermare la nostra palmare costatazione. Qui c’è, dall’inizio alla fine, una bimba che, coadiuvata dai due fratelli maggiori, si strugge per poter rimettere insieme i propri genitori separati. In questo caso c’è oltre tutto un palese e dichiarato riferimento autobiografico della regista alle proprie ferite di bambina la cui famiglia si era rotta quando lei aveva appena un paio d’anni. Insomma, prendiamone atto, i figli darebbero la pelle per vedere uniti e possibilmente in armonia i propri genitori, è un dato di realtà, anche se ancora non ci dice nulla sul valore del film.
Come nulla, aggiungiamo subito, ci dice sul valore del film la genealogia della Elkann, nata per sorte nell’alveo del grande casato degli Agnelli (FIAT), il cui patriarca Gianni era suo nonno. La breve e insignificante apparizione dei nonni –sia detto per inciso - li mette quasi sullo stesso piano dei genitori, esempi di una generazione rimasta ingabbiata nell’immaturità affettiva e nell’egoismo narciso della propria adolescenza. C’è invece un citrico nostrano che oggi, dopo aver ricostruito l’albero genealogico degli Agnelli (e dei Barzini, la cui rampolla ha collaborato alla sceneggiatura di “Magari”), ne deduce che da un seme (alto)borghese non poteva che generarsi un’opera borghese, di per sé sinonimo di artisticamente mediocre. Chi non ricorda, provi a leggere in Wikipedia alla voce Andrej Alexndrovic Zdanov, il famoso ministro della cultura sovietica ai tempi d’oro del DIAMAT.
Veniamo allora al film in quanto tale, possibilmente liberato da determinismi sociologici. Mediocre? No, quello è troppo. Forse un po’ ingenuo, un po’ scontato nel linguaggio narrativo e un po’ superficiale nel suo sentimentalismo. Spieghiamoci. “Magari” ha i suoi momenti migliori là dove la regista cerca di immedesimarsi totalmente nello sguardo della bambina (vera protagonista del film), nella sua sofferenza e nei suoi sogni. Per non lasciare niente alla nostra immaginazione, la Elkann introduce dei brevi inserti che materializzano i desideri della piccola Alma, il suo sogno di riconciliazione tra mamma e papà. Sono visioni edulcorate che, insieme ai vari stratagemmi messi in campo dai tre figli per riavvicinare i genitori, regalano anche sprazzi di semplice divertimento (che non guasta affatto, specie in Piazza). Il punto è un altro.
Nel film tutti i personaggi sono alla spasmodica ricerca di segnali, anche minimi (un sorriso, un litigio, un’alterazione della voce, una ripicca) che rilevino il perdurare o meno dell’amore originario tra i due coniugi, dell’innamoramento che li aveva messi insieme. Sarebbe questo l’unico cemento duraturo della coppia. L’autrice in un’intervista ha detto “la famiglia c’è dove c’è l’amore”. Ma appunto, quale amore? Sembra trattarsi del prolungamento infinito della fase nascente della relazione, tutta fatta di sentimenti, dove la ragione non può nulla. Il grande filosofo svizzero Denis de Rougemont aveva coniato, in “L’amour et l’Occident”, il termine di “amour passion”. Se esso, insegnava de Rougemont, non cresce e non evolve in “amour fidelité” non avrà chance si sopravvivere a lungo. Può gonfiarsi, come una rana, ma poi scoppia. Forse la regista, consapevole di questo inevitabile destino che incombe sul mito dell’”amor cortese” ha voluto dichiarare la propria impotenza a uscire da tale insuperabile “cul de sac”. In questo caso, forse, non sarebbe neppure giusto parlare di superficialità sentimentale. Avrebbe avuto, la Elkann, un possibile terreno di ricerca e di approfondimento nel cristianesimo, che però nel film appare come una superstizione inculcata nei bambini dalla madre, e non decolla da quella sorta di nevrosi intessuta di riti e di scongiuri che giustamente suscita nel pubblico qualche amara risata.