CRONACA
L'ippopotamo al Festival: uno sguardo al concorso internazionale. “Maternal”, due generi di maternità, un bel film
"Siamo in Argentina, dove l’aborto non è legale, quindi il tema non è accademico, fa parte della contemporaneità, e il bisogno è reale"

*Di Claudio Mésoniat

Maura Delpero, una giovane documentarista italiana alle prime armi con la fiction, ha girato un film su un tema molto ardito: quel che può accadere se delle adolescenti, ragazze madri o ancora incinte, convivono con delle suore che le accolgono in una home attigua al loro convento. Siamo in Argentina, dove l’aborto non è legale, quindi il tema non è accademico, fa parte della contemporaneità, e il bisogno è reale.

A insaporire la storia entra in scena una giovane italiana mandata a concludere il suo noviziato in quella casa-convento di Buenos Aires, in attesa della sua professione definitiva. La cinepresa della Delpero si sofferma in particolare sulle relazioni che si sviluppano tra suor Paola e due giovanissime madri, Lu e Fati, una spanata, più attenta ai divertimenti che al figlio, ribelle all’ambiente suoresco, l’altra obbediente alla disciplina, in assenza di alternative per sé e per il figlio, al quale è molto affezionata.

Come avrete capito non siano in presenza di un film d’azione. Ma la regista è molto brava nel far parlare le immagini e i suoni, al di là dei dialoghi, soprattutto nel darci il senso del tempo calmo e uguale di un luogo di preghiera inserito in una lunga tradizione. Lo fa –come ha notato la selezionatrice del concorso per le opere italiane- tenendo la camera ferma e lasciando che l’azione si sviluppi all’interno dell’inquadratura; lo fa con i suoni, specie con le musiche, nel contrasto tra quelle liturgiche (c’è una sequenza latina che ricorre, il “Jesu dulcis memoria”, stupenda e appunto dolcissima) e quelle roncheggianti che fanno da quinta sonora alle giornate delle giovani.

Bene, ci direte. E che succede dunque? Succede che la novizia, donna delicata, gentile con tutti, affettuosa, grazie a Dio poco suoresca (ovvero non formale e rigida nel vivere le regole, come per lo più le consorelle) finisce per fare da mamma al bambino della ragazza poco materna, del tutto comprensibilmente e opportunamente visto che quest’ultima abbandona la creatura e scompare dal convento per alcuni mesi, alla ricerca del principe azzurro. Ma quando ritorna in scena, ferita e disillusa, le suore decidono di allontanarla e lei vuole portare con sé, in modo del tutto legittimo, il proprio figlio.

Drammaticamente suor Paola “rapisce” il bimbo, già abbastanza grande per manifestare la propria preferenza per la mamma-suora, vaga per la città senza velo e senza abito ma dopo poche ore ritorna al convento per rimettere il bambino tra le braccia materne. Ha deciso: non può impossessarsene sottraendolo a sua madre, neppure per il bene del piccolo. Tutto questo senza che sia pronunciata una parola: le immagini e la recitazione, ottima, ce lo dicono con chiarezza. Il finale resta invece completamente aperto circa il destino di suor Paola e della sua vocazione. Resterà, tornerà “nel mondo”?
Scelta di grande libertà e onestà intellettuale da parte della regista. Soprattutto perché il mainstream, in cui regista e protagonista sono coinvolte per loro stessa ammissione (nei dialoghi seguiti alla proiezione), vede la scelta di una donna per la vita consacrata come un puro non senso, e dunque come una liberazione la possibilità di abbandonare la vocazione dopo aver scoperto la propria femminilità.

Siamo sinceri: chi tra i nostri ipotetici lettori può immaginare che proprio la scelta verginale possa potenziare, anziché mortificare, la femminilità di una donna, comprese le sue potenziali caratteristiche… maternali? Ancora una volta, in pochi giorni, vediamo far capolino in un film di questa rassegna, specchio della nostra contemporaneità, il cristianesimo, questo “ingombro” di una tradizione che ci appartiene ma che risentiamo come completamente estranea, inutile se non ostile alle esigenze vere del nostro vivere e, in radice, della nostra umanità. E all’orizzonte –della nostra quotidianità e a fortiori del cinema che la scruta- non sembra materializzarsi qualcosa o qualcuno che possa testimoniarcene la pertinenza.

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