Stefano Piazza presenta la nuova pubblicazione: "Il terrore politico, quello mediatico e le rispettive conseguenze"
*Di Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi
La storia non ricorderà l’epoca in cui viviamo come quella del terrore politico e del terrorismo mediatico, perché questi fenomeni sono con sempre maggiore evidenza soltanto la conseguenza di un ben più lacerante terremoto, quello cioè che sta ridefinendo forme di stato e linee di confine obsolete, tanto nelle aree arabo-musulmane - dove è in corso una rivoluzione culturale, oltre che sociale e politica - quanto nei Paesi africani e asiatici, dov’è esplosa in tutta la sua drammatica realtà la rabbia per l’inarrestabile disequilibrio tra povertà e ricchezza. Un fatto, questo, che rende gli affamati ancora più famelici e i ricchi sempre più distaccati da tutti loro.
Se ancora non appare chiaro chi o cosa abbia portato il mondo contemporaneo a questi sconvolgimenti, più nette e distinte
appaiono però le conseguenze. L’insostenibile peso di queste tragedie umane si manifesta in molti modi: nelle deposizioni di despoti e dei loro governi, nell’occupazione militare di territori, nella crescita esponenziale di mercati neri, nelle fluttuazioni irregolari dei mercati e della finanza, nelle ondate migratorie massificate, nel ritorno ai nazionalismi
e alla paura degli altri. È un’epoca, questa, in cui si alzano muri e si fanno saltare ponti, anziché favorire la ragionevolezza del diritto e della diplomazia. In mezzo a tutto ciò, si evidenziano fenomeni sorprendenti. Uno di questi è stata la parabola del Califfato islamico e del suo leader, il quale ha sostituito nell’immaginario collettivo l’incarnazione e fonte di ogni male che eravamo abituati a identificare (perlomeno in Occidente) nel principe saudita Osama Bin Laden.
La fortuna mediatica che si è saputo guadagnare il sulfureo Califfo dello Stato Islamico, l’iracheno Abu Bakr Al Baghdadi - che ha persino rischiato di essere l’uomo dell’anno 2015, secondo l’autorevole settimanale newyorkese Time - è ben
superiore a quella del suo predecessore. L’ascesa dello Stato Islamico quale competitor di Al Qaeda è merito tanto delle condizioni storiche che hanno disintegrato le speranze del popolo iracheno di avere uno Stato rappresentativo delle sue componenti sociali, quanto dell’intuizione di Al Baghdadi di costruire da subito uno Stato anziché un network di
terroristi. L’essersi imposto sul proscenio mediatico è invece merito anche di una tecnica di comunicazione orribile ma vincente, perché alla portata di tutti. Una tecnica che ci ha mostrato la sorprendente capacità e la padronanza dei terroristi odierni nel saper comunicare con efficacia idee incendiarie da parte di chi, con pochi mezzi e macabra fantasia, ha iniziato una campagna d’odio, trasformando la guerra e la morte in uno spettacolo. Il mondo dopo lo Stato Islamico è perciò un luogo, reale e virtuale al tempo stesso, dove è stato liberato il seme del male e dove è facile che questo riesca ad attecchire, sia pure se in maniera residuale e non permanente. Per le ragioni di cui sopra, e per la predisposizione odierna degli ultimi a scegliere la vendetta di fronte alle ingiustizie, a preferire la collera di fronte all’incertezza e a prediligere la propria morte e
quella degli altri, nella convinzione che ci aspetta un altro mondo pronto ad accoglierci tutti quanti.
Ma se questo è invece il migliore dei mondi possibili, la soluzione si deve trovare su questa terra. A meno che non si voglia sostenere che ogni barbara azione terrena sia governata esclusivamente da Dio, senza il libero arbitrio. Ipotesi alla quale preferiamo di gran lunga il pensiero che si tratti piuttosto della sola opera degli uomini. E che, in quanto tale, è destinata a conoscere una fine. Non altrettanto deve avvenire per la memoria, che è la sola bussola per il futuro dell’umanità. E il principale motivo per cui si scrivono libri come questo.