L'analisi di Mesoniat sul Federalista: "Estendere la guerra al Libano è l’irresponsabile soluzione cui l’attuale leadership israeliana potrebbe aggrapparsi per ritardare il proprio tramonto politico a Tel Aviv"
di Claudio Mesoniat - https://ilfederalista.ch/
A che punto è la guerra in Medioriente? È sul fronte nord, quello con il Libano, dove il conflitto potrebbe infiammarsi ed estendersi a tutta la regione, che nelle ultime ore si è invece aperto un inatteso scenario di pace. Paradossalmente è l'incendiario capo di Hezbollah, il barbuto Hassan Nasrallah, che tende la mano a Israele aprendo la via a un possibile accordo sulla demarcazione della frontiera con il Libano, la cui popolazione allo stremo non perdonerebbe mai al leader sciita di aver trascinato il Paese in una nuova guerra. L'ostacolo maggiore a una soluzione diplomatica, che avrebbe inevitabili ricadute positive anche sul fronte meridionale di Gaza, è rappresentato dalla tentazione per il Governo Netanyahu di prolungare la guerra nell'illusione di garantirsi una sopravvivenza politica.
Sotto le martellanti pressioni di Stati Uniti ed Europa ma anche di una parte considerevole della propria opinione pubblica, Israele sta allentando la morsa militare su Gaza, stritolata e ormai ridotta a un cumulo di macerie, tra le quali la popolazione civile sta pagando in modo iniquo le gesta barbare dei terroristi di Hamas, che della Striscia sono pure i governanti.
Ma anche Israele arrischia di subire in modo irreparabile le scelte del proprio Governo, ispirate da una strategia erratica e all’apparenza dettata più da calcoli di sopravvivenza politica di Netanyahu che da una visione chiara e responsabile del futuro dello Stato ebraico, nella sua inevitabile convivenza con la popolazione palestinese e con i suoi progetti statuali.
Ora, la vera minaccia che incombe in questo momento sul futuro del Medioriente è rappresentata dal disegno, accarezzato da Netanyahu e dai leader più impresentabili del suo Governo, di regolare i conti e “farla finita” con l’altro nemico giurato dell’”entità sionista”, ossia la formazione sciita libanese di Hezbollah.
Estendere la guerra al Libano, in realtà, è l’irresponsabile soluzione cui l’attuale leadership israeliana potrebbe aggrapparsi per ritardare il proprio tramonto politico a Tel Aviv. Ma che si tratti di una follia lo comprova una serie di dati di fatto, che solo la tentazione di abbarbicarsi al potere oscura agli occhi di Netanyahu e sodali (Smotrich e Ben Gvir in testa). Vediamo con ordine di quali dati si tratta.
Le vanterie del Governo Netanyahu
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha minacciato Hezbollah, affermando che Israele è pronto a impegnarsi in una guerra destinata a distruggere la milizia-partito sciita libanese. "Siamo pronti a sacrificarci”, ha detto Gallant al Wall Street Journal. “Vedono quello che sta succedendo a Gaza. Sappiano che possiamo fare lo stesso a Beirut". Ma chiediamoci anzitutto: l’esercito israeliano (IDF) sta realmente distruggendo Hamas? Lo può fare?
Di fatto lo smantellamento di un’organizzazione così radicata nel territorio di Gaza non è una prospettiva realistica. Da quando Hamas è sorta nel 1987 il gruppo è sopravvissuto a ripetuti tentativi di eliminare la sua leadership.
La struttura stessa dell'organizzazione è stata progettata per assorbire simili impatti. I vertici del gruppo, se non si trovano all’estero, si nascondono nel complesso dedalo di tunnel scavati sotto la Striscia (e in gran parte ancora intatti), insieme agli ostaggi rimasti in vita e alla maggior parte dei combattenti di Hamas (IDF dichiara di averne eliminati 8mila su una forza stimata attorno ai 30mila). Si aggiunga che le tattiche devastanti di Israele a Gaza potrebbero radicalizzare una generazione di nuove reclute.
Il suicidio di una guerra a tutto campo con Hezbollah
Seconda domanda. L’impresa di eliminare Hezbollah è, a sua volta, alla portata di Israele? In realtà con Hezbollah le cose si complicherebbero alquanto per IDF. Finora, com’è noto, la milizia guidata da Hassan Nasrallah (e teleguidata dall’Iran) si è accontentata di manifestare il proprio appoggio ai “fratelli” di Hamas intensificando appena il consueto scambio di razzi e missili che, dopo la guerra del 2006, si trascina ritualmente con Israele al di sopra del confine con il Libano.
Ma in una vera campagna di guerra IDF si troverebbe di fronte una potenza di fuoco stimata all’incirca come dieci volte superiore a quella di Hamas (per dotazione missilistica) nonché servita da una rete di tunnel ancor più sofisticata di quella allestita dai palestinesi a Gaza.
L’ha descritta di recente su The Times of Israel Tal Beeri, direttore di un think tank formato da esperti militari ed ex-membri dell’intelligence, impegnati a monitorare la sicurezza di Israele soprattutto sul confine nord.
Il sud del Libano, dove opera indisturbata la milizia terroristica sciita, vi è descritto come la “terra dei tunnel”, dotati di numerosi poligoni di tiro, gallerie tattiche vicine ai villaggi che consentono di sparare dai pozzi e rientrare ad armarsi e riposarsi per riemergere di nuovo. Tra queste gallerie vi sarebbe anche un largo cunicolo d’attacco, transitabile pure da piccoli camion, lungo circa 45 chilometri e che penetra fin dentro il territorio israeliano.
Hezbollah non è il Libano
Se è vero dunque che Israele finirebbe con l’impantanarsi in un nuovo fronte di guerra assai più insidioso di quello aperto nella Striscia, con il rischio di sottoporre il proprio esercito a una doppia pressione intollerabile e militarmente fatale, c’è un altro interrogativo, l’inequivocabile risposta al quale non lascia scampo a chi, come Netanyahu, cerchi di camuffare una campagna di guerra in Libano come una ineluttabile necessità difensiva per Israele. Quali sono le intenzioni di Hezbollah? Intensificare la guerra con Israele? O, piuttosto, tentare la pace, una pace che porti una maggiore stabilità nella regione?
Per rispondere occorre, prima ancora di decifrare le intenzioni nascoste nei torrenziali proclami del leader di Hezbollah, chiarire un dato che solitamente sfugge alla maggior parte degli osservatori.
Quel che va capito semplicemente è che Hezbollah non è il Libano. Anzi, Hezbollah attraversa in questo frangente storico una crisi di rigetto da parte della popolazione libanese che non ha forse precedenti nella storia di questa anomala formazione al tempo stesso politica e terroristico-militare sorta agli inizi degli anni 80 nel mezzo della guerra civile libanese. Basti, a illustrarlo, quanto accaduto ieri sera all’Aeroporto internazionale di Beirut (AIB).
Colpo di scena all’aeroporto di Beirut
Sugli schermi dell’Aeroporto, piratati da due gruppi clandestini noti per la loro feroce avversità ad Hezbollah, al posto degli abituali orari di arrivo e partenza dei voli è apparso il seguente messaggio rivolto al segretario generale del “Partito di Dio”:
"In nome del Signore e del popolo, l'aeroporto internazionale di Beirut non è l'aeroporto di Hezbollah o dell'Iran. Hassan Nasrallah, non avrai più difensori se il Libano sarà trascinato in una guerra di cui ti assumerai la responsabilità e le conseguenze. Hezbollah, non andremo in guerra in nome di un altro Stato [sc. l’Iran]. Hai fatto saltare in aria il nostro porto dopo avervi nascosto le tue armi. Che l'aeroporto sia liberato dal giogo del mini-stato".
Per i libanesi, il riferimento all’Iran, potenza regionale alla guida del cosiddetto “asse della resistenza” (allo Stato sionista) è chiaro, come lo è l’accusa a Hezbollah di aver provocato l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (che distrusse un quarto della città e provocò oltre 200 morti e migliaia di feriti). Hezbollah è inoltre regolarmente accusato dai suoi critici di importare armi attraverso l'AIB, che si trova nel sud di Beirut, roccaforte del partito sciita.
Il messaggio, immediatamente fotografato e riprodotto alla grande su tutti i social, fa capire lo stato d’animo della stragrande maggioranza della popolazione libanese di fronte all’aggravarsi del confronto con Israele e alla prospettiva di una guerra a tutto campo con IDF.
Per immedesimarvisi occorre mettere a fuoco che in un Paese in preda a una pesantissima crisi economica con gravi ripercussioni sociali e politiche –da oltre un anno il Libano è senza un presidente ed è governato ad interim da un Governo dimissionario- la prospettiva di una guerra devastante appare inconcepibile, per quanto il sostegno alla causa palestinese sia generalmente condiviso.
Le vere intenzioni di Nasrallah
Per arrivare al nodo principale della questione e chiarire quali siano le reali intenzioni di Hassan Nasrallah, leader indiscusso di Hezbollah e uomo di fiducia degli ayatollah iraniani, occorre leggere tra le righe del suo più recente discorso pubblico, tenuto lo scorso 4 gennaio in occasione della commemorazione di uno dei fondatori del “Partito di Dio” recentemente scomparso.
Ebbene, per la prima volta Nasrallah ha aperto all’ipotesi di negoziati con Israele sulla ridefinizione dei confini con il Libano, accennando a una “soluzione” diplomatica e all’”opportunità storica” apertasi dopo l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”. Per i suoi esegeti si tratterebbe realmente di una mano tesa a Israele, cui Nasrallah non può ovviamente che chiedere la cessazione immediata delle operazioni militari a Gaza.
Puntualmente, proprio oggi il primo ministro libanese ad interim, Nagib Mikati ha dichiarato in un’intervista televisiva che una “soluzione diplomatica” sul confine tra Israele e il Libano è in gestazione, precisando che l’emissario presidenziale americano Amos Hochstein, reduce da una visita appena conclusasi a Tel Aviv, è atteso in settimana a Beirut per precisare i termini della trattativa.
Di cosa si tratta? Su quali reciproche concessioni potrebbe fondarsi un accordo storico suscettibile non solo di evitare l’abisso di un’estensione della guerra tra Israele e Hamas ma di aprire una pacificazione duratura tra Israele e il Libano?
Vediamone in breve i termini, non senza annotare che si apre uno spiraglio di pace inatteso e imprevedibile fino a qualche giorno fa. E senza dimenticare che –come più volte abbiamo sottolineato sul Federalista- a voler evitare un’escalation della guerra in Medioriente sono, dietro le quinte, gli stessi manovratori dell’”asse della resistenza”, quegli ayatollah iraniani per i quali, malgrado la retorica filo palestinese carica di odio per l’”entità sionista” di cui si riempiono la bocca, un confronto bellico con Israele (e gli Stati Uniti) potrebbe rappresentare in questo momento la miccia di una rivolta interna ovvero, per loro, l’inizio della fine.
I termini del possibile accordo tra Beirut e Tel Aviv
Nasrallah si riferiva alla demarcazione del confine terrestre tra Israele e Libano, tema sul quale lavora da tempo la diplomazia americana sotto la guida di Amos Hochstein (sul tema, si veda qui).
In sintesi, e così come richiesto dalla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’ONU (che sancì la fine della seconda guerra tra Israele ed Hezbollah nel 2006), Israele accetterebbe di ritirarsi dal territorio noto come Fattorie di Shebaa, abitato da secoli da famiglie libanesi e rivendicato da Beirut: si tratta di “un'area agricola di quattordici fattorie che si trovano a sud di Shebaa, villaggio libanese sulle pendici occidentali del monte Hermon, punto d'incontro tra i territori di Siria, Libano e Israele” (Wikipedia).
A questa “vittoria”, che Hezbollah non mancherebbe di attribuirsi, il gruppo sciita dovrebbe –sempre a norma della risoluzione 1701- corrispondere con il ritiro delle proprie postazioni armate a nord del fiume Litani, lasciando la striscia di terra che separa il fiume dalla linea blu di confine tra Libano e Israele, che rimarrebbe presidiata esclusivamente dalle forze onusiane della FINUL e dall’esercito ufficiale libanese.
Il diavolo, come sempre, si annida nei dettagli. Uno, in particolare, esso pure sancito dalla 1701, rappresenta una richiesta fondamentale per la normalizzazione del Libano. La risoluzione imponeva a tutte le fazioni protagoniste della guerra civile libanese (1975-1990) di deporre le armi. Richiesta ottemperata da tutti i movimenti, divenuti da allora semplici partiti politici, con l’eccezione di Hezbollah. Che sia, questa, la volta buona anche per questa possibile svolta storica? Difficile, ma non impossibile.
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