Claudio Mésoniat analizza lo scontro tra le due principali anime della Palestina. E racconta lo spietato leader militare di Hamas, attraverso gli occhi di chi l’ha seguito per anni dentro le prigioni israeliane
di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato su ilfederalista.ch
La notizia è stata messa in circolazione ieri da Associated Press. Un “alto funzionario” di Hamas, Khalil al-Hayya, ha dichiarato ad AP che l'organizzazione sarebbe disposta ad accettare una tregua di cinque o più anni con Israele, deponendo le armi e trasformandosi in un “partito politico”. Le condizioni? Che venga istituito uno Stato palestinese indipendente dentro i confini precedenti il 1967. Di che balzare sulla sedia. Propaganda?
O forse, messaggio lanciato da un esponente dell’ala politica di Hamas al comando militare del gruppo a Gaza? Possibile, visto che al-Hayya parlava da Istanbul e fa dunque parte del novero di notabili di Hamas “con i piedi al caldo”, guidati dallo scaltro Ismail Haniyeh accampato nella sua villa di Doha in Qatar. Ma che dose di realismo può contenere questa missiva in bottiglia lanciata nel mare torbido delle relazioni inter palestinesi?
Quel che più colpisce infatti nella dichiarazione di al-Hayya è il seguente dettaglio: Hamas sarebbe disposta ad unirsi all’OLP sotto l’egida di Fatah, per formare un Governo unificato per Gaza e Cisgiordania. Incredibili dictu. Può servire, a questo punto, rivisitare la storia dei rapporti tra le due principali formazioni che si contendono la leadership palestinese.
Hamas vista da vicino
“I denti dei detenuti di Fatah sono in cattive condizioni, mentre i prigionieri di Hamas mantengono igiene e pulizia”. Ohibò, l’approccio può sembrare bizzarro. Non fosse che l’autore della minuziosa diagnosi, prima di diventare un uomo chiave dell’intelligence israeliana, era dentista. Si chiama Yuval Bitton e ha praticato per un certo tempo anche nel vasto mondo carcerario dello Stato ebraico.
Detto dei denti, ecco la descrizione dei militanti di Hamas: stile di vita religioso, ascetico, con rigida disciplina. “Pregano cinque volte al giorno, non toccano dolci, non fumano (…). Alle 21, nelle ali della prigione dove alloggiano quelli di Hamas si spengono tutte le luci; nelle ali di Fatah guardano la televisione tutta la notte”. Quanto alla disciplina, “lì dentro era a un livello folle. C’è una leadership e decide tutto. Non esiste un prigioniero che faccia quello che vuole”.
Interessante, certamente, per capire la natura di Hamas. Ma per venire ai rapporti tra le due organizzazioni, è noto che fino al 2007 esse operavano sotto una direzione congiunta.
Dopo il ritiro di Israele da Gaza, nel 2005, e dopo alcuni mesi di difficile coabitazione, caratterizzati dalle elezioni generali vinte da Hamas nel 2006 (con netta maggioranza a Gaza mentre Fatah prevaleva in Cisgiordania) per oltre un anno fu scontro aperto tra le due fazioni e nel 2007 Hamas prese il controllo della Striscia.
Contro i sostenitori di Fatah si scatenò allora a Gaza un pogrom di inaudita violenza, i suoi attivisti venivano gettati dai tetti, legati ancora vivi alle auto e trascinati per le strade fino alla morte.
“Quelli di Fatah non avrebbero mai immaginato che Hamas fosse capace di massacrare il proprio popolo”, ricorda Bitton, che aggiunge: “Sono certo che il 7 ottobre la gente di Fatah non sia rimasta sorpresa. L’avevano già visto accadere”. A loro spese. Fu da allora che nelle carceri israeliane i detenuti delle due fazioni furono tenuti in bracci rigorosamente distinti.
Spietati rivali
Da fratelli nella resistenza a Israele, per giunta accomunati dall’appartenenza alla Umma (la comunità musulmana), a spietati rivali. Dove si radica tale incompatibilità? Detto in breve, se l’agenda di Fatah è di natura nazionalista, quella di Hamas è fondamentalmente islamista.
Se Abbas e compagni, eredi dello storico leader Arafat e delle correnti palestinesi di stampo anticolonialista e marxista degli anni 70/80, si battono per l’edificazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1948 o del 1967, Hamas è invece un’emanazione dei Fratelli Musulmani, i cui obbiettivi statutari sono l’eliminazione dello Stato di Israele e la liberazione delle “sacre terre musulmane”.
Non è casuale che Hamas sia ancora sostenuta e finanziata dal Qatar, Stato protettore della Fratellanza Musulmana (una galassia complessa, dalla quale i governanti qatarioti tentano oggi di prendere le distanze). Anche se, com’è noto, tra le “sviste” più clamorose di Benjamin Netanyahu va annoverata quella di aver contribuito al sostegno economico di Hamas in chiave anti-Fatah (nell'ottica di un miope divide et impera).
Ritratto dell'incorruttibile Sinwar
Una nota, infine, su Yahya Sinwar. Tra le memorie di Yuval Bitton (il nostro dentista divenuto agente dei servizi di intelligence israeliani), vi è un episodio che aiuta a comprendere la personalità dell’attuale capo indiscusso di Hamas a Gaza.
Sinwar fu liberato dalle carceri di Israele nel 2011, a seguito dell’accordo che mise fine alla prigionia del militare israeliano Gilad Shalit, rapito da Hamas nel 2006. Lo scambio costò a Israele la liberazione di 1027 militanti palestinesi detenuti nelle sue prigioni, tra i quali appunto Sinwar, già allora vero leader della formazione islamista.
Durante la prigionia -ricorda Bitton-Sinwar fu peraltro salvato dai medici israeliani che lo curarono per un tumore al cervello. Nel 2006, dopo il rapimento del caporale Shalit, Israele scatenò una sanguinosa incursione a Gaza, durante la quale oltre ad alcune centinaia di terroristi di Hamas si calcola che furono migliaia i civili che persero la vita.
In quell’occasione, durante un colloquio con Sinwar l’agente Bitton gli chiese se per quell’azione fosse valsa la pena di sacrificare la vita di diecimila persone innocenti. “Ne sarebbe valsa la pena anche a prezzo di centomila caduti”, fu la risposta di Sinwar. Quando una guerra è combattuta nel nome di Dio, fa notare in conclusione Bitton, ogni persona che perde la vita è un shahid (martire).