IL FEDERALISTA
L'Europa e la sua miniatura: perché l'UE non ha copiato la Svizzera?
Intervista all'ex ministro Moavero Milanesi: "La pace fra gli Stati dell’Unione Europea la consideriamo ovvia, la diamo per scontata, ma è un risultato importantissimo. Perfino straordinario"

di Claudio Mésoniat - contributo pubblicato su  ilfederalista.ch

Arrivano le elezioni europee, meno spettacolari di quelle americane ma, con 27 Stati alle urne, quasi complicate come quelle indiane. Gli aruspici e i demòscopi prevedono uno spostamento dell'asse politico verso la destra, quella destra che spesso non simpatizza affatto per l'Europa.

In attesa dei risultati si può cercare di capire quale sia stata l'utilità di questa Unione Europea tanto derisa e bistrattata. E di farlo cercando di sciogliere quell'enigma che noi svizzeri non riusciamo a capire: perché, in fondo, non ci hanno copiato e non hanno fatto una bella federazione, a imitazione della nostra? Noi del Federalista siamo qui per questo e cercheremo di decifrare l'arcano in compagnia di un grande conoscitore della storia e della struttura dell'Unione, tra i maggiori studiosi italiani dei meccanismi europei, Enzo Moavero Milanesi, già ministro in numerosi governi italiani. Insieme, lo vedrete leggendo la conversazione, faremo delle scoperte molto interessanti.

Professor Moavero Milanesi, siamo soliti dare per scontato che l'aver preservato per oltre 70 anni l’Europa dalla guerra sia stato un gioco da ragazzi per l’Unione Europea. È così?
"La pace fra gli Stati dell’Unione Europea la consideriamo ovvia, la diamo per scontata, ma è un risultato importantissimo. Perfino straordinario, se lo guardiamo con gli occhi dei nostri nonni e probabilmente, anche per noi, più percepibile oggi, visto il ritorno di una guerra duratura e terribile in Ucraina. Per più di 70 anni non ci sono più state guerre fra le nazioni che via via hanno aderito al processo d’integrazione europea: qualcosa di inedito nella nostra storia continentale, dall’antichità profonda e da quando Giulio Cesare si affacciò sul Reno. Di riflessioni sull'opportunità per gli Stati europei di collaborare fra loro, anziché battersi in rivalità accesa, se ne facevano da decenni, addirittura già alla fine dell'Ottocento, ma rimanevano a livello di pensiero, di idee, di ideali. Tanti e ottimi spunti, tragicamente, brutalmente contraddetti da una lunghissima guerra civile europea, iniziata nel 1914 (se non già con le guerre balcaniche del 1912) e finita nel 1945, fra devastazioni immani".

Quindi la proposta dei padri fondatori che individuarono nel carbone-acciaio, cioè proprio anche nell’industria militare e nel rapporto tra Germania e Francia il nodo da stringere per propiziare la pace, fu una proposta tutt’altro che scontata?
"La dichiarazione di Robert Schuman, il 9 maggio 1950, fu molto coraggiosa perché l'esperienza dei conflitti precedenti in Europa aveva dimostrato che a una guerra ne seguiva un'altra di rivincita e poi un'altra ancora e non si finiva più. Quella proposta, di gestire in comune proprio carbone e acciaio, materie prime e industrie per il controllo delle quali e con le quali si erano combattute le guerre moderne, rappresentò una svolta epocale da cui tutto è iniziato. Insomma, grazie alla progressiva e continuativa integrazione economica europea - e grazie a Dio - abbiamo avuto più di 70 anni di pace fra Stati prima sempre nemici e per giunta, con geometrie alterne".

Tuttavia i sei Paesi fondatori (Germania, Francia, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) che crearono la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio) avevano in mente una costruzione politica articolata. In particolare facendo leva su un nucleo di difesa comune, che avrebbe comportato una regia politica comune. Come andarono le cose?
"Va detto subito che la CECA, proposta in modo molto ben dettagliato da Robert Schuman già nella sua dichiarazione base, è disegnata da un altro famoso “padre fondatore”, Jean Monnet. La sua idea era di iniziare a collaborare sulle questioni economiche, integrare quanto più possibile le economie ed eliminare così i motivi per farsi la guerra. E qui Monnet ha avuto in pieno ragione. Il seguito del ragionamento era che, unite le economie, sarebbe stato naturale - come una mela matura che cade dall’albero - unirsi anche a livello politico. In realtà e dopo ben 73 anni, questo non si è verificato. In quei primi anni cinquanta, in contemporanea all’approccio di Jean Monnet, c'erano anche proposte più ambiziose e qui fu molto attivo Alcide de Gasperi. In particolare, si sosteneva che fosse necessario affiancare alla costruzione economica dell'Europa anche una costruzione di tipo più politico. Su questa linea, si negoziò il trattato per la  Comunità Europea di Difesa (CED), che scaturiva dal contesto storico della guerra fredda, dal timore dell'Europa occidentale di fare la fine dell'Europa orientale e ritrovarsi sotto il giogo sovietico. Il Trattato CED è molto interessante: direi da rileggere e ristudiare oggi, perché prevedeva una totale integrazione militare, quindi un vero e proprio esercito europeo, con la medesima uniforme per i soldati, linee di comando integrate, la stessa bandiera, oltre a un coordinamento stretto delle forniture industriali di materiale bellico".

(Chissà che un domani, forse non lontano, se una nuova CED vedesse la luce non converrà anche alla Svizzera farvi parte) Intanto, a far naufragare le proposte di maggiore integrazione, o comunque a ritardarne la realizzazione, fu la Francia, e proprio sul punto della difesa comune. Perché avvenne questo colpo di freno?
"Qui dobbiamo, come al solito, tenere ben presente il momento storico. C’è una Francia che, dopo aver vissuto in maniera drammaticamente divisiva la Seconda Guerra Mondiale, si trovava di fronte a un’incalzante e traumatica decolonizzazione che demoliva il suo grandi impero coloniale. Nel maggio del 1954 c’era stata la sconfitta di Dien Bien Phu e la perdita dell’Indocina: quindi nell’agosto 1954, quando doveva ratificare la CED, Parigi si trovava nel pieno delle emozioni successive a quell'evento. Peraltro, nel 1956, la Francia dovrà riconoscere l'indipendenza di due sue colonie molto vicine, Marocco e Tunisia, e pochissimi mesi dopo, sempre nel 1956, Francia e Gran Bretagna subiscono lo smacco del fallito intervento militare nell'ambito della crisi del canale di Suez. Tra il 1954 e il 1956 siamo in un biennio estremamente complicato per la Francia, per la sua opinione pubblica, per la sua tradizionale politica estera e dunque, anche per i profili di rilievo militare. È in questo clima politico nazionale che il Trattato CED non viene ratificato. Inoltre, dopo pochi anni, finisce la cosiddetta “Quarta Repubblica”, e torna alla presidenza il generale De Gaulle, che com’è noto non era un entusiasta dell’integrazione europeista. Con il senno di poi, la CED rappresenta un’occasione perduta, di quei fecondi anni ’50. Ad averla colta, adesso, mentre avvertiamo l’urgenza di una difesa comune europea, non ci troveremmo ai piedi della scala".

Veniamo all’idea dell’unità politica, che i padri fondatori immaginavano, se non sbaglio, di natura federale. Perché si prese una strada diversa, con una costruzione, sfociata nell’attuale Unione Europea, che appare molto centralizzata e un po’ bizzarra, con un abbozzo di stampo federale nell’accostamento al Parlamento di una sorta di “Camera degli Stati” (come l’abbiamo negli USA e in Svizzera) che sarebbe il Consiglio europeo?
"Io penso che la strada imboccata non sia in contradizione con un obiettivo finale di una federazione europea, enunciato in modo molto esplicito da Schuman, come in tanti discorsi di De Gasperi e Adenauer. In realtà, l'obiettivo non è mai stato rinnegato, nemmeno oggi, da gran parte di coloro che si sono occupati e si occupano delle questioni europee, anche con responsabilità di tipo politico. Però - e qui viene il punto - questo obiettivo è stato sempre rinviato ed è stato lasciato sulla linea dell’orizzonte mai raggiunta. Il preambolo dell'attuale Trattato UE, come era anche nelle versioni precedenti, parla di un divenire di un’Unione “sempre più stretta”. Un concetto in fieri, ma sufficiente a disturbare, per esempio, una certa visione britannica quando ancora il Regno Unito era nell’Unione Europea".

Ma la realizzazione che abbiamo sotto gli occhi a lei pare federale?
"L'architettura istituzionale dell'Unione europea è oggettivamente diversa da una forma federale. Ci sono svariate similitudini apparenti: è vero che esiste una Camera dei popoli, eletta a suffragio universale, il Parlamento europeo, e una Camera degli Stati membri, il Consiglio, dove siedono i ministri dei vari Stati. Però il peso specifico tra queste due Camere è diseguale. Il Consiglio è sempre legislatore: nella maggior parte dei casi insieme al Parlamento europeo, in una sorta di bicameralismo effettivo, molto federale se vogliamo, ma in alcuni casi, il Consiglio è legislatore da solo, con il Parlamento europeo in una posizione più subordinata, perché viene o consultato oppure deve dare l'approvazione, ma non partecipa pienamente al dibattito di merito. Il Parlamento europeo e il Consiglio sono co-legislatori nell'80% circa degli atti legislativi dell'Unione. Però quei casi, legislativi e non, in cui il Consiglio è in posizione dominante sono estremamente sensibili e rilevanti: la materia del bilancio UE, la materia tributaria o ancora le decisioni della politica di difesa, di sicurezza, in quella estera. Quindi c'è distanza dal modello federale che, fra l’altro, di solito, tende a dare alla Camera rappresentativa dei popoli un peso maggiore rispetto a quella degli Stati".

Se si andasse verso una soluzione di tipo federale per l’Europa, lei come la vedrebbe meglio declinata (una confederazione? Una federazione?)
"Il punto secondo me cruciale nel rispondere a questa domanda, ma anche a prescindere, è che bisognerebbe avere il coraggio politico e civico di portare la questione costituzionale europea - con la C maiuscola - al centro del dibattito. Quindi non togliendo, qua e là, un po' di unanimità, aumentando le decisioni a maggioranza, lavorando di uncinetto e di cacciavite, ma ponendo al centro del dibattito la questione costituzionale a tutto tondo. Andrebbero discussi dei modelli riconoscibili e collaudati, comprensibili a chiunque, perché nella storia si sono già manifestati e se ne sono compresi i risultati. Verosimilmente ne abbiamo tre, ma uno si esclude subito, ossia il modello centralista. Anche se, talvolta, l’Unione Europea dà proprio questa impressione: perché legifera su minuzie: quando si possono pescare le vongole o cosa si deve scrivere sull'etichetta dei prodotti alimentari o del vestiario. Ma attaccare questo è, francamente, fra il mistificatorio, il polemico e l'ingenuo. In realtà, l’Unione Europea ha l’obiettivo chiave, storicamente il suo primo obiettivo, di creare un grande mercato in cui tutte le merci possano circolare: se le leggi degli Stati sono diverse, si creano ostacoli che vanno rimossi da una legge UE uniforme".

Restano i due modelli propriamente federali: federazione o confederazione?
"La federazione, di cui parlavano esplicitamente i padri fondatori, sappiamo benissimo come funziona. Ci sono gli Stati Uniti d'America, c'è la Germania, la Svizzera, la stessa federazione indiana, come abbiamo visto adesso, con le sue elezioni libere e democratiche: ci sono insomma vari esempi di federazioni moderne efficienti. La federazione è appunto lo schema che abbiamo nelle orecchie fin dagli inizi del processo d’integrazione europea. Se la federazione non piace, per qualsivoglia motivo politico o altra ragione, si può preferire la formula confederale. Un modello meno collaudato nella storia, dunque bisogna capire bene cosa ciascuno intenda per modello confederale; però è un modello che può funzionare, pur necessitando di un dibattito approfondito. Il focus delle discussioni, degli approfondimenti deve essere l’efficienza della soluzione, del modello costituzionale prescelto. Perché l'Europa odierna ha un’architettura invecchiata, spesso inefficiente di fronte alle aspettative dei cittadini europei, onnipresente su questioni di dettaglio di cui il cittadino s’interessa poco, e latitante o in ritardo di azione su tanti versanti importanti, a cominciare da quello della difesa, che oggi preoccupa molto, oppure su grandi questioni economiche, come è accaduto durante la crisi finanziaria globale. Bisogna spiegare se il modello confederale o quello federale siano in grado di migliorare in modo netto l'efficienza dell’Unione nell’attuale mondo globalizzato. Mi ispirerei soprattutto agli esempi che ci sono stati nella storia: in particolare, non devo dirlo a voi, è stimolante l'esperienza svizzera che da Cantoni separati e guerreggianti è diventata una confederazione e poi è evoluta in federazione. Dalla storia, dall’esperienza altrui, c’è sempre da imparare. Ecco, i federalisti di oggi dovrebbero venire finalmente allo scoperto, imporsi con la forza delle idee e metterle sul tavolo in modo organico, concreto, lavorando a livello transnazionale, come fecero Monnet, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak in quei primi anni ‘50. È esattamente questo che oggi non si vede: tutto aleggia, insieme al contrario di tutto, ma non ci sono atti concreti. Forse, si è esaurito il filone dei leader europei lungimiranti, capaci di edificare e innovare radicalmente".

Un'ultima questione, sempre a proposito della Svizzera: lei come giudica la scelta del nostro Governo, confermata dal voto popolare, che ha optato per la via bilaterale? Sembra in sostanza che alla Svizzera interessi solo poter continuare a partecipare al mercato unico senza pagare scotto politicamente (e anche senza azzardarsi a proporre vie nuove per un federalismo europeo).
"La Svizzera finora non ha mostrato interesse a essere integrata nel processo di unificazione europea, pur interagendo nei risvolti economici e di mercato. Ho il massimo rispetto per le scelte sovrane, autonome della Svizzera. In effetti, le Comunità Europee in passato e l'Unione Europea oggi, prevedono fra le loro cosiddette politiche comuni, vincoli e regole che impongono obblighi complessi e standardizzati, sovente inadatti a specificità territoriali come le svizzere, dove potrebbero avere un impatto più forte che altrove. La situazione della Svizzera può trovare analogie con quella della Norvegia, che però per ben due volte (negli anni 70 e negli anni 90) firmò il trattato di adesione alle Comunità europee e all'Unione europea, per poi non ratificarlo con referendum e restarne fuori. Quindi credo che oggettivamente la specificità economica e storica della Svizzera, tutto sommato, spieghi le sue scelte rispetto all’UE. Peraltro, in Svizzera c’è una bella tradizione di referendum che funzionano bene e quindi in teoria potrebbe essere una questione da sottoporre. Benché già il fatto che non vi sia stata l'adesione allo Spazio Economico Europeo, che è molto meno vincolante, mi fa capire che le regole UE sono forse suscettibili di complicare la realtà svizzera. Quindi non vedo nulla di bizzarro, meno ancora di scandaloso nella non adesione all’UE della Svizzera, che essendo quasi una piccola Europa in sé e per sé, può insegnare tanto alla stessa Unione Europea". 

 

 

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