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Il Federalista
06.07.2024 - 09:060
Aggiornamento: 10.07.2024 - 08:12

Niente requiem per le nostre valli

Dopo le tragedie in Mesolcina e in Vallemaggia, il Federalista riflette sul futuro delle regioni di montagna. Con interviste a Speziali, Mattei e Frapolli

Contributo a cura della redazione de ilfederalista.ch

Eventi catastrofici come quelli che hanno funestato Mesolcina e Vallemaggia ci obbligano a riflettere. Per esempio sul fatto che non siamo in grado di padroneggiare completamente la Natura. Ci proviamo, è la nostra sfida. Ma non l'abbiamo fatta noi, la Natura, e molti suoi meccanismi ancora ci sfuggono. Intanto, nel mare di dolore causato dal disastro, occorre reagire.

E il dolore, come ha colto bene Mario Donati su laRegione, è per le vite umane perse ma anche per la distruzione di opere importanti edificate nel tempo per rendere la vita più vivibile in queste nostre valli di montagna, peraltro stupende. Si interroga il docente valmaggese:

“Si vorranno salvare le valli più esposte, quelle più colpite, oppure si cederà alle sirene tentatrici che predicano le teorie dell’evacuazione e dell’abbandono, perché queste zone hanno un costo pro-capite troppo alto?”

L’interrogativo non è accademico, poiché le “sirene” sono all’opera già da qualche giorno. Non sulla nostra stampa (si veda anzi l’ottimo contributo a più voci pubblicato mercoledì sulle pagine del Corriere del Ticino) ma sui giornali d’Oltregottardo.

La NZZ di lunedì, sotto il cappello programmatico “Ora un grande tabù viene ribaltato: la Svizzera non potrà fare a meno di rinunciare ad alcune valli”, dava spazio, tra le altre Cassandre, a un climatologo assolutamente certo che laddove simili alluvioni “accadono due o tre volte, e per di più in un’area già scarsamente popolata, allora non è più possibile giustificare la ricostruzione dal punto di vista socioeconomico” (così Reinhard Steurer, docente di politica climatica a Vienna).

Speziali: “Cari becchini, non è tempo di requiem”

“In Svizzera, ma immagino anche in altri Paesi, ogni tot, con una certa cadenza, fa capolino una mentalità molto filo urbana che tende in qualche modo a svuotare le zone alpine”.

Reagisce così, alle cassandre, Alessandro Speziali, nostro interlocutore in questo contesto non già nelle vesti di presidente cantonale del PLR bensì in virtù della sua professione: Speziali è infatti coordinatore dei progetti di sviluppo della Valle Verzasca.

“Mi trovo immerso nella situazione –conferma- dove quel che penso trova riscontro nel mio lavoro. E a chi vede le zone alpine come una terrazza di svago per la popolazione urbana, a chi cerca tutt’al più di preservarle con una mentalità museale, di mummificazione che assolutamente non ci appartiene, posso dire che siamo ben lontani dal requiem per le nostre valli”.
 
E puntualizza, sempre a proposito di quelle “teorie dell’abbandono”:  “Ovvio, ci sono casi evidenti dove magari bisognerà rinunciare in futuro a insediare un’azienda o una casa famigliare per i sassi che rischiano di cader loro sopra la testa. Ma non vorrei che queste uscite alimentassero una sorta di fatalismo. Concentriamoci invece sulla diversità del nostro territorio, che è la nostra fortuna”.

Speziali, dal punto di vista economico, comunque, l’obiezione riguarda la mole di investimenti necessari per la messa in sicurezza delle terre alte dai pericoli idrogeologici.
“Queste opere di premunizione sono importanti per tutta la regione, perché sarebbe illusorio pensare che possiamo lasciare andare le cose come vanno in grosse porzioni del territorio e poi salvarci nella nostra piccola roccaforte urbana. Assolutamente no, a meno di dover fare poi delle maxi opere di premunizione più in basso perché non le abbiamo volute fare in alto. Non ha senso”.

In poche parole, insomma, se non fermi la Maggia lassù in alto, te la ritrovi poi per le strade di Locarno.
“Certo, non solo il Ticino ma anche il resto della Svizzera è fatto di complementarità valle-piano. Proprio questo aspetto eterogeneo del territorio non è qualcosa à la carte, è qualcosa che bisogna proteggere dal punto di vista culturale, anzitutto, per poi investire in progetti di sviluppo, in servizi primari, in opere di premunizione, perché la riuscita di un territorio, l'equilibrio di un territorio non cade dal cielo (anzi dal cielo cadono i problemi)…"

…cade l’acqua, appunto…. In questo Cantone, comunque, fino a pochi anni fa ci si arrovellava per contrastare lo spopolamento delle valli, considerato quasi una sciagura. E le periodiche catastrofi causate da frane e alluvioni non bastavano per far gettare la spugna.
"Il declino demografico (pensiamo al “Fondo del sacco” di Martini) è iniziato già tra Otto e Novecento con le migrazioni verso l'America, verso l'Australia, eccetera. È un declino che dura veramente da tantissimi anni E possiamo decidere se arrenderci o se provare a mantenere comunque una presenza costante, viva, di popolazione nelle zone più periferiche. Ed è giusto provarci per più motivi, di cultura, di storia, economici, ambientali, paesaggistici, territoriali, di premunizione. Vale la pena continuare a coltivare questa sensibilità che molti di noi hanno".

La crisi pandemica sembrava aver trasmesso questa sensibilità anche alle nuove generazioni. Si è parlato, un po’ in tutto l’arco alpino, di una sorta di ritorno dei giovani verso la montagna, in particolare grazie alla telematica, allo smart working, alla possibilità di risiedere, anche lavorando, in zone più tranquille e più ospitali delle città. Lei ha visto qualcosa del genere anche qui da noi?
"Quello che ho visto per ora e che dobbiamo registrare, è una ritrovata progettualità nelle valli. In termini di iniziative, di indotto, di posti di lavoro, questo sì. I risultati demografici si potranno registrare solo tra qualche anno. Va pur detto, e parlo soprattutto per il Locarnese. Che l'agglomerato urbano è molto attrattivo non solo dal punto di vista delle opportunità di lavoro, ma anche sul piano della qualità residenziale. Locarno, Minusio, Muralto, Ascona, Losone, insomma, non sono Quarto Oggiaro. Il piano esercita anche una forte concorrenza".

Non ci sono progetti residenziali nelle valli sostenuti da enti pubblici?
"Sì certo, ma purtroppo quello burocratico è un male che affligge anche e soprattutto le valli. Ci sono progetti perfettamente sostenibili che si trovano così tanti vincoli pianificatori ambientali eccetera che se ne paralizza lo sviluppo: non per salvaguardare da chissà quale male, ma lo si paralizza punto e basta".

Lei, nell’ambito del Masterplan Valle Verzasca, ha portato a termine il progetto del cosiddetto “albergo diffuso” a Corippo. Ma non siamo un po’ nel novero di quella che lei chiamava prima “mummificazione museale”?
"Il progetto dell'albergo diffuso, come altri progetti, è un tentativo di mantenere viva la Valle. Evidentemente ci vuole un equilibrio tra progetti turistici e investimenti per la popolazione residente, come può essere il Co-working, il Verzasca Mobile, come può essere anche tutto il programma di eventi che facciamo per i residenti, come può essere il negozio Coop a Brione. È la filosofia del Masterplan: equilibrio tra turismo sostenibile, vivere in Valle e patrimonio naturale storico. Quando incominci ad avere uno squilibrio, si presentano i problemi".

Gente che visita, gente che lavora, gente che abita. Ma è difficile evitare che una valle diventi un museo all’aperto se non vi è attività agricola. E girando per le nostre montagne ci si accorge che sono più gli alpi che chiudono che non quelli che resistono. E non solo a causa del lupo.
"Infatti la sfida maggiore –a parte l’elemento di stupidità del lupo- è quella di assicurare il trapasso delle aziende che ci sono oggi. L'economia agricola è decisiva dal punto di vista culturale, commerciale, economico, ma anche di cura del territorio, di attrattiva turistica… Va detto però che c’è un'evoluzione storica e culturale per cui il Ticino guarda sempre più al terziario. Quindi è probabile che in futuro si dovrà far ricorso a persone che da altri Paesi vengano a buttarsi nei nostri vecchi rami tradizionali, paradossalmente. Perché dietro un formaggino, a quel Büscion sul bancone che piace tanto (perché c’è un ritorno al culto del prodotto locale) non c’è la vita bucolica, ma una gran fatica (e poi quando costano due o tre franchi più del previsto ci si lamenta)".

La presenza umana che preserva dal degrado

Abbandonare le valli alpine perché è divenuto troppo costoso metterle in sicurezza oppure garantire una sicurezza ragionevole a chi ci vive? Sottoponiamo l’aut aut a due interlocutori che con la Vallemaggia hanno legami solidi: Germano Mattei di MontagnaViva, infaticabile promotore di memoria e sviluppo della sua Valle e Giovanni Frapolli, un imprenditore creativo che in Vallemaggia ha investito del suo, in particolare nella stazione alpina di Bosco Gurin.

Germano Mattei contesta in modo categorico l’idea di uno spopolamento pilotato delle montagne per motivi di sicurezza. “Le nostre valli e le nostre montagne sono da sempre sotto la pressione delle forze della natura”, ci dice, “abituate a convivere con esse in un modo o nell'altro, a causa di alluvioni, valanghe (i miei genitori videro la loro camera sventrata da una valanga nel 1951), nevicate particolarmente abbondanti: è un po' il destino delle montagne, ma non possiamo abbandonarle a loro stesse”.

È vero, aggiunge che “Valle Bavona e Valle di Peccia (la mia valle natia) che ho visitato ieri, sono state colpite violentemente e ci vorrà un bel po' per riprendersi, ma alla fine sono sicuro che se ne uscirà e sarà possibile ricominciare a vivere”. Il timore può piuttosto essere un altro: che siano alcune famiglie a decidere di andarsene, qualora le operazioni per riportare la normalità si prolungassero. “Dobbiamo fare di tutto per scongiurarlo, perché in un certo senso sarebbe peggio dell'alluvione”.

Frapolli: se creiamo le condizioni, la gente tornerà a viverci

Chi quasi scommette che nel futuro delle valli non ci sia lo spopolamento è Giovanni Frapolli, per il quale “la montagna o per meglio dire le valli saranno sempre più abitate. Naturalmente perché ciò avvenga bisogna investire e garantire i servizi necessari. Con queste ipotesi di abbandono mi sembra si vogliano nascondere gli errori del passato”.

A cosa si riferisce? “Mi sembra che lo spopolamento delle valli, per frenare il quale si è fatto troppo poco, è una concausa dei fenomeni cui abbiamo assistito. Una volta nelle valli c’era il doppio, il triplo della popolazione di adesso e ognuno gestiva il proprio prato, il proprio bosco. I patriziati andavano a pulire i riali (come quello che scende a Fontana)”. Precipitazioni molto abbondanti in Maggia ci sono sempre state, spiega, “ma il problema si pone se l'acqua non ha più possibilità di avanzare. Se un riale è sporco, è pieno di sassi, è pieno di frane, ci sono gli alberi che si spezzano e vi si depositano, oggi nessuno se ne accorge. Infatti le immagini più significative secondo me, in questi giorni, sono quelle che mostravano il lago Maggiore pieno di detriti: danno un’idea del materiale presente nei letti dei corsi d’acqua”.

Dunque per Frapolli la ricetta è incentivare il ritorno in montagna? “Sì – conferma deciso – solo così potranno rifiorire le attività dei nostri avi, specialmente quella attenzione alla natura che ho descritto. Sì pensi che metà delle superfici pascolabili ancora presenti non sono usate. Non passerà molto prima che la natura se le riprenda”. Ciò avviene, accusa Frapolli, perché lo Stato non aiuta più le aziende che considera troppo piccole (per numero di capi e terreno coltivato).

Prevalgono, continua Frapolli, le teorie di un certo ambientalismo “che preferisce la natura “allo stato brado””: “Vogliono fare delle nostre montagne una sorta di Ballenberg, un parco museale per turisti cittadini”. Un progetto che si palesa in alcuni esempi concreti: “Il presidente del Patriziato di Lodrino, mi ha raccontato come nel Comune si volesse ripulire il letto di un riale che scende alle spalle del paese: ebbene, ma lo Stato è intervenuto per impedirlo, perché ora tutto deve restare allo stato di natura. Non si toccano i riali, non si riattano i rustici: chi vuole sistemarli per viverci anche solo un mese l’anno trova mille ostacoli”. La burocrazia di cui ci diceva Speziali, al servizio di un ambientalismo esasperato.

Senza investimenti in montagna, problemi in pianura

Torniamo da Germano Mattei, per il quale “senza i lavori compiuti in montagna durante molti secoli si sposterebbe soltanto il rischio verso la pianura: la preservazione del territorio alpino è un servizio per tutti; la vita delle valli in questo senso è anche servizio alle zone di pianura”.

C’è chi sostiene, gli facciamo notare, che mantenere le infrastrutture necessarie in montagna diventerà semplicemente proibitivo. Per Mattei, invece, “andrebbe ricordato che la stragrandissima maggioranza degli investimenti infrastrutturali (strade, ponti, autostrade, ferrovie) vanno alla pianura. Gli investimenti in montagna, per quanto costosi in rapporto al numero di persone che vi risiedono, rimangono una goccia nel mare nel complesso delle spese”.

“Io resto convinto che aiutare la vita in montagna rimanga un investimento che per finire varrà la pena aver fatto: la montagna rimane un luogo vitale. Certo vi sono dei problemi, ma problemi ve ne sono dappertutto, anche nelle grandi città”. 

“Le montagne sono il cuore del Paese”

“Mi ha commosso vedere la presidente della Confederazione venire quassù a offrirci la sua solidarietà. E mi pare”, aggiunge Germano Mattei, “che la gente comune percepisca quanto siano importanti queste nostre realtà di montagna, al di là dei problemi: La Svizzera è dopotutto montagna: la montagna, cioè, è al cuore dell’identità del Paese. Certo, c’è l'Altipiano al centro della vita economica, ma in Svizzera la maggior parte della superficie è montagnosa ed è quella che offre un valore aggiunto per tutti (e molti infatti lo riconoscono)”.

Valorizzare e rendere ancor più abitabili le valli resta la vera sfida, ribadisce Frapolli, “perché se invece di 5.000 persone in Vallemaggia ve ne fossero 10mila come solo 30 anni fa, il degrado territoriale sarebbe ben più limitato”.  “Perciò, quando si ragiona se investire o meno”, continua l’ingegnere e imprenditore, “bisogna anche chiedersi cosa avverrebbe se non si investisse”. L’attualità aiuta a illustrare il ragionamento: “Ora bisognerà spendere 50 milioni per riparare i danni in Lavizzara; ma quella cifra la si poteva spendere preventivamente, come investimento, generando dinamiche virtuose”.

E rincara: “Occorre pensarci due volte prima di chiudere le scuole. Fino al 2000, per esempio, c’era ancora la scuola qui a Bosco, dove io avrei voluto investire ulteriormente, ma dove il più delle volte sono stato ostacolato dagli stessi abitanti del posto. E intanto in Paese sono rimasti in pochi. Ecco, il degrado inizia da queste cose”.

Il rilancio della Vallemaggia, a detta dell’imprenditore, riparte anche dalla ricucitura del rapporto con l’idroelettrico: “Vi sono 16 dighe in Valle: un tempo davano un indotto. Adesso sono rimasti solo gli aspetti negativi dell’idroelettrico: i lavori, la direzione delle dighe sono ormai altrove; i canoni d’acqua vanno al Cantone. Secondo me, ora che si discute di innalzare i bacini, si dovrebbe porre anche il tema di lasciare dei soldi alle valli: io imporrei una cifra di 5 milioni l’anno da usare in Vallemaggia per investimenti nel territorio”.


 


 

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