"Stiamo gestendo lo Stato come nell'Ottocento, ma i tempi sono cambiati. E proprio lo Stato, che spende oggi 600 milioni l'anno in più rispetto al 2011, dovrebbe essere il primo interessato a capire il perché di questa inefficacia"
A imporsi nel dibattito pubblico in questi giorni è un singolare strumento di indagine denominato Welfare Index. Elaborato da due uomini politici ticinesi, Sergio Morisoli e Paolo Pamini -e convalidato nella sua attendibilità scientifica dall'ETH di Zurigo- l'index propone annualmente un tentativo di misurare il disagio sociale su scala cantonale secondo una griglia di 90 parametri. Ne emerge un quadro paradossale: più lo Stato investe finanziariamente in aiuti e sussidi e più cresce il malessere sociale, in quanto -sostegnono gli autori- "il disagio non si cura con i soldi". Servono anche quelli, beninteso, ma la politica deve imparare a dare spazio ai corpi intermedi e al loro protagonismo. Ne parliamo con Sergio Morisoli.
Prima di entrare nel dettaglio dei risultati chiediamo a Sergio Morisoli quali siano i criteri in forza dei quali i 90 indicatori sono stati scelti…
La scelta degli indicatori si è basata essenzialmente su due principi: il primo è che dietro il dato statistico scelto dovesse esserci un volto, un nome e un cognome, un’età, una storia e non solamente un numero. Generici indicatori, come possono essere per esempio quelli sull'inquinamento, sul PIL o sulle malattie, in ambito di welfare non dicono niente. I nostri sono indicatori ad personam. Se qualcuno un giorno vorrà utilizzare bene quello che produciamo potrà arrivare direttamente alle persone, senza perdersi in generiche misure per il ‘bene comune’ o la socialità, nella convinzione che gettando un po’ di soldi a pioggia qualcosa di buono accadrà.
Quale il secondo criterio?
L’altro criterio è che questi dati siano pubblici e accessibili a tutti. Sono infatti dati forniti dallo Stato, ufficiali, e non possono essere contestati.
Veniamo dunque ai risultati più importanti emersi quest’anno.
I 90 indicatori contribuiscono a sondare il malessere per 6 categorie: i giovani, la famiglia, il lavoro, la delinquenza, il comportamento e la finanza. A subire l’incremento maggiore di malessere nell’ultimo decennio è la categoria della delinquenza (+38.64%); seguono il comportamento (+23.43%), i giovani (23.21%) e la famiglia (23.04%). Ma in definitiva il dato eclatante è che a restare quasi invariato è solamente il malessere finanziario (+0.26%). E questo ci dice che il malessere che cresce maggiormente non è quello finanziario ma un altro genere di malessere con il quale fatichiamo a confrontarci, e tanti più a ‘risolverlo’.
Possibile che il fattore di sostegno finanziario non sia generatore di malessere?
Beh, è ovvio che una persona che guadagni 2.500 franchi al mese sia più in difficoltà di una che ne prenda 5.000. Ma quello che sottolineiamo è che la casistica del malessere finanziario è l’unica rimasta costante. Vuol dire che c'è chi è entrato e chi è uscito da una situazione di malessere finanziario, per cui in un qualche modo lo Stato sociale, inteso come quello che ci mette qualcosa in tasca per vivere, funziona. Ma non basta. Perché se bastasse gli altri malesseri non sarebbero in aumento.
Di qui, dunque, l’osservazione generale che vi fa dire che saremmo di fronte a un malessere non curabile semplicemente con un aiuto finanziario.
E questo non è un dato di poco conto. Per le 90 casistiche rappresentate dagli indicatori, quindi per il welfare inteso in senso lato, lo Stato spende il 65% del suo budget totale ovvero circa due miliardi e mezzo l’anno. E se spendiamo il 30% in più per queste voci rispetto a 11-12 anni e il malessere cresce, c’è un problema. Un problema che deve anzitutto essere guardato.
2) Le ragioni di un paradosso
Riassumendo: voi da 12 anni registrate una crescita del disagio sociale. Intanto però lo Stato sussidia, investe sempre di più nei vari ambiti del cosiddetto welfare (che oggi assorbe più del 60% dei soldi spesi dal Cantone). Insomma, con una battuta dovremmo parlare di badfare State. Ma al di là delle battute, quali sono a suo giudizio le ragioni di questo insuccesso?
Noi calcoliamo una misura quantitativa del malessere diffuso, non abbiamo i mezzi, il tempo e le competenze per svolgere un lavoro di approfondimento qualitativo su queste dinamiche. Ma proprio lo Stato, che spende oggi ormai oltre 600 milioni l'anno in più rispetto al 2011, doveva e dovrebbe essere il primo interessato a capire il perché di questa inefficacia. Invece non lo fa e incrementa solo la quantità di soldi per coprire le prestazioni di welfare, cioè coprire di soldi le casistiche dei nostri 90 indicatori che peggiorano di anno in anno.
Sembra un po’ paradossale che si investa senza interessarsi al risultato.
Ma è così, la politica non è interessata all’out put, cioè a verificare se i mezzi (le leggi, il personale e i soldi) messi in campo raggiungono il risultato sperato. La politica si concentra sull’in put, cioè su come una prestazione statale è svolta. E così si moltiplicano controlli e burocrazia, facendo impazzire gli enti della società civile, ma restando indifferenti poi se il risultato prodotto dal processo è lontano dagli obiettivi.
Quindi non si tratterebbe di spendere meno, ma di spendere meglio?
È quello che diciamo. Le misure messe in campo, soprattutto se anche costose, hanno raggiunto gli obiettivi? Questo occorrerebbe chiedersi. Ma la politica non lo fa mai per la paura di tagliarsi da sola le gambe dimostrando di aver proposto soluzioni inefficaci. È un’impostazione favorita in particolare da un approccio a compartimenti stagni.
Lei intende riferirsi a quello che si suole definire “dipartimentalismo” all’interno del Consiglio di Stato? Con Dipartimenti, a volte, l’un contro l’altro armato…
Sì, proprio a questa malattia. Il Governo dovrebbe rendersi conto che il malessere sociale non si suddivide secondo i confini dei Dipartimenti: un problema è del DECS, l’altro del DSS eccetera. Il malessere invece ha caratteristiche orizzontali e trasversali. Quello delle famiglie ad esempio attraversa numerose leggi e numerosi Dipartimenti e servizi. Noi poniamo confini dipartimentali ai problemi, confini spesso contesi (dove finisce il DECS e dove inizia il DSS e via dicendo) mentre il malessere gode della “libera circolazione. Penso che lavorare assieme sul fronte del welfare sarebbe lo scatto verso il futuro di un'organizzazione statale che vuole essere efficiente ed efficace. Dobbiamo renderci conto che stiamo gestendo lo Stato come nell'Ottocento, ma i tempi sono cambiati.
3) Welfare e sussidiarietà
Una radice dell’inefficacia del welfare cantonale attuale non potrebbe nascondersi in un approccio di tipo ultimamente statalista, cioè poco propenso a valorizzare la creatività, l’efficienza e la capacità innovativa dei corpi intermedi, dalle famiglie alle associazioni, agli istituti che operano sul terreno nei vari campi del disagio sociale? Lei, Morisoli, era stato all’origine dell’inserimento del principio di sussidiarietà nella Costituzione cantonale.
Diciamo le cose come stanno. Il Popolo ticinese ha votato a favore del principio di sussidiarietà nella Costituzione il 9 febbraio del 2020. Votazione avvenuta dopo quasi 8 anni di tira e molla tra Governo e Commissione su quella mia iniziativa parlamentare. Subito dopo il voto presentammo una proposta volta a tradurre il principio costituzionale, come normalmente avviene, in legge. Per non crearne una nuova proponemmo di modificare l’esistente Legge sui sussidi introducendo delle modifiche. A oggi, 4 anni dopo il voto popolare non si è mosso ancora nulla.
Bene, dato a Cesare quel che è di Cesare e ai temporeggiatori quel che spetta loro, quale potrebbe essere il contributo “dal basso” all’affronto del tema welfare?
Potremmo dire che riformare il welfare equivarrebbe a modernizzare lo Stato. Riformare il welfare vuol dire infatti riformare la socialità, riformare la scuola, riformare le Istituzioni. Perché se non si entra in un'ottica di sussidiarietà, se non si vuole dare fiducia agli enti intermedi -che siano i Comuni o gli enti privati- per affrontare queste casistiche di malessere (presumendo che le possa risolvere solo lo Stato e con i soldi), la partita è persa ancora prima di uscire dallo spogliatoio.
E cosa succederebbe se entrassero in campo anche gli enti intermedi, pubblici e privati?
Come detto prima, solo un welfare che mette al centro il risultato da ottenere, cioè diminuire le casistiche negative, può coinvolgere attivamente la società civile, darle spazio, lasciarla provare e quindi darle fiducia, togliendo i sospetti. Ma se il Governo non ritiene e non capisce che la vera sussidiarietà è la soluzione di buona parte della sua incapacità, ma la ritiene una nemica per l’esercizio del suo potere, ben difficilmente gli enti della società civile potranno affrancarsi dalla tirannia dei Dipartimenti.
Tirannia? Dai Dipartimenti non giungono forse ampi sussidi?
Purtroppo gli enti stessi, in gran parte, si trovano di fronte a due vie: ricevere più soldi e farsi imporre le ricette dello Stato e gli innumerevoli lacci e laccioli, oppure ricevere meno soldi ed essere più liberi di trovare soluzioni creative; spesso scelgono la prima e finiscono col perpetuare una gestione da “impiegati di Governo decentralizzati”. Ma il punto vero è che all’attuale welfare non importa nulla dei risultati, è interessato alle procedure, si attacca al legalismo, alla burocrazia controllante e ridondante; è interessato a tenere sotto ricatto gli enti (lo abbiamo visto con i tagli lineari per il Preventivo 2024) e si oppone a soluzioni nuove, alternative a quelle decise a tavolino decenni fa dallo Stato.