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Il Federalista
28.10.2024 - 12:060

L'Occidente e la cultura del suicidio terapeutico

Si riapre, dopo un caso di condanna per pratica inadeguata di suicidio assistito, il dibattito sulla (presunta) necessità che il nostro Paese legiferi in materia

Articolo a cura della redazione de ilfederalista.ch

È l’Europa a detenere nel mondo il primato della denatalità. Al tempo stesso, a primeggiare nella legalizzazione delle diverse modalità e pratiche per togliersi la vita, le si chiamino “eutanasia” o “suicidio assistito”, è sempre il nostro Vecchio Continente (fatta eccezione per la tanatofilia delle formazioni armate del fanatismo islamista, che proclamano tenebrose “La voglia di morire dei nostri figli è più forte del desiderio di vivere dei vostri”).

Si tratta di segnali molto diversi –denatalità e diritto al suicidio- ma indubbiamente entrambi rivelatori di un disagio esistenziale profondo.

Ci occupiamo oggi di alcune domande aperte dal trend verso nuove forme legali di eutanasia e/o suicidio assistito, prendendo spunto dal dibattito riaperto in questi giorni da una sentenza pronunciata in Ticino, ma soprattutto da un paio di altre sentenza emesse nei mesi scorsi dal Tribunale Federale, rilevanti anche se -come si suol dire - passata presto in cavalleria.

In realtà non c’è stata incertezza per la Corte delle Assise correzionali di Mendrisio presieduta dal giudice Mauro Ermani nell’emettere una sentenza di condanna per istigazione e assistenza al suicidio in un ristretto numero di casi (verificatisi tra il 2016 e il 2017 a Chiasso) a carico di una donna le cui motivazioni lucrative erano del tutto palesi. È bene ricordare infatti che il nostro Codice penale federale del 1942 –che di fatto ha legalizzato anche se indirettamente e in modo involontario l’assistenza al suicidio- recita all’articolo 115: “Chiunque per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria”.

La fuga in avanti del Tribunale federale

Tuttavia, come regolarmente accade da anni, dopo la sentenza è giunta puntuale la rivendicazione di una legge che disciplini puntualmente le attività delle non poche associazioni che operano da decenni nel nostro Paese in modo esteso e organizzato in questo ambito (EXIT, Dignitas ecc.) e che hanno reso la Svizzera famosa nel mondo come “il Paese del suicidio assistito”.

Puntuale torna infatti nei media la domanda: perché il Consiglio federale si rifiuta di legiferare dettagliatamente in materia (rifiuto opposto, in particolare, da politici come Blocher e Sommaruga)?

Tra le molteplici interpretazioni, l’enigma trova una possibile risposta -quella che a noi pare più adeguata- nella volontà di non legittimare le “fabbriche del suicidio”, con il rischio tra l’altro di porle in contrasto con la pratica medica che, per sua natura, tende a favorire la vita e non a sopprimerla. Le due recenti sentenze del Tribunale federale alle quali accennavamo, ci aiutano a capire le ragioni di questa prudenza. Vediamo di cosa si è trattato.

 La Corte Suprema svizzera ha indirettamente statuito nel mese marzo di quest’anno che anche le persone sane possono ricevere il suicidio assistito. La sentenza riguardava il caso di una donna che, pur non essendo malata, aveva chiesto di poter accompagnare nella morte il marito in fase terminale. Il dottor Pierre Beck (vicepresidente di EXIT) l’aveva assecondata: assolto.

Così come nel giugno scorso era stata assolta dalla accuse di omicidio intenzionale e violazione della legge sugli stupefacenti la dottoressa Erika Preisig (paladina a livello internazionale della legalizzazione del suicidio assistito) che, senza perizia psichiatrica, aveva somministrato il farmaco letale a una donna affetta da una malattia mentale. Motivazione: per accedere al suicidio assistito non si ritiene necessario che una persona soffra di una malattia mortale e incurabile.

La coscienza del medico

Rimane comunque necessario, per somministrare la medicina della morte, che vi sia il parere e il via libera di un medico. E qui sta il punto. Prima di rilasciare la ricetta fatale ogni medico deve fare i conti con la propria coscienza, professionale innanzitutto.

L’Associazione Medica Svizzera (FMH) e l'Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM) hanno delle precise linee guida: “Il suicidio assistito in persone sane non è giustificabile in termini di etica medica”. E l’FMH fa notare che, sebbene negli ultimi anni sia stato osservato un aumento di richieste di suicidio assistito in persone sane, tali linee guida restano vincolanti per i propri membri e la loro inosservanza può comportare il ritiro della licenza a esercitare la professione medica. Esagerato rigore?

Forse no, visto che in gioco vi è il ribaltamento di un’etica medica che i secoli si sono tramandata sin dal IV a.C.. L’aveva solennizzata il Giuramento di Ippocrate: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”.

Giuramenti o meno, la sola immagine del medico che prescrive il farmaco mortale al paziente, peraltro sano, veicola presagi di tempi bui all’orizzonte.

Qualche anticipazione ce la offre uno scenario solo geograficamente lontano. Andiamo in Canada. 

Se suicidio ed eutanasia diventano terapie

Il Canada “accompagna” alla morte sempre più persone ogni anno. E l’acronimo MAiD, “Medical assistance in Dying”, letteralmente “assistenza medica nel morire”, è una delle espressioni più presenti nel discorso pubblico canadese degli ultimi anni. Ma è stata la francofona provincia del Québec a fare da avanguardia, introducendo nel 2015 la “Loi concernant les soins de fin de vie”, o Legge 52.

Con la Legge 52 infatti il Québec è stato la prima provincia canadese a introdurre una normativa che di fatto include tra le pratiche sanitarie l’assistenza medica alla morte, che include sia l’aiuto al suicidio che l’eutanasia su richiesta, Quello stesso anno, il 2015, la Corte Suprema del Canada (sentenza Carter v. Canada) dichiarava incostituzionale il divieto al suicidio assistito. Una decisione che abrogava la penalizzazione per chi aiutasse una persona a morire.

Poco dopo, ecco che anche lo Stato federale decideva di seguire la strada della provincia francofona e legalizzava nel giugno 2016, con il Medical Assistance in Dying Act (MAiD), il suicidio assistito dal medico e l'eutanasia volontaria per gli adulti che rientrassero in alcune categorie di patologie mediche. Da quel momento, però, l’evoluzione normativa non si è praticamente fermata.

Fatta la legge, si spalancano le porte

Il passo successivo dell’evoluzione legislativa (marzo 2021) è stato l’eliminazione della necessità di una condizione fisica terminale. In tutto il Canada ora la legge consente anche a persone con “gravi disabilità fisiche o malattie mentali incurabili” di accedere all’assistenza medica alla morte, sebbene l’evidente difficoltà nel definire con precisione in cosa consista una "malattia mentale incurabile" sta rallentando la piena entrata in vigore di questa parte della normativa.

Questa estensione infatti pone ulteriori dubbi su come le persone più vulnerabili, psicologicamente ed emotivamente, possano essere adeguatamente protette dalle pressioni sociali o familiari verso una "morte dignitosa".

Esplosi in pochi anni i numeri delle pratiche

In Québec, particolarmente controversa è stata in seguito l’introduzione, sulla base di una legge del giugno 2023, delle richieste anticipate: in pratica dall’ottobre corrente sarà permesso alle persone con malattie degenerative di dichiarare, mentre sono ancora capaci di intendere e di volere, la volontà di ricevere “l’assistenza medica alla morte” in un futuro stato di incapacità.

Nonostante sia stata presentata come un progresso in nome dell’autodeterminazione, questa innovazione apre la strada a problematiche etiche, poiché in tal modo la decisione finale è delegata ai medici o ai familiari in un momento in cui il paziente non è più in grado di confermare la sua scelta.

La corsa ad allargare l’accesso all’“assistenza medica alla morte” sembra dunque inarrestabile. Uno degli aspetti da rilevare è la rapidità con cui sono aumentate le richieste. In Québec, attualmente, il 6,6% di tutti i decessi è attribuibile a questa pratica, in Canada il 4,1%, percentuali significativamente superiori a quelle del Belgio (2,3%) dove l’eutanasia esiste da 20 anni e della Svizzera, dove si stima attorno all’1,8 la percentuale di decessi dovuti a episodi di suicidio assistito.

A facilitare l’accelerazione vi è inoltre il fatto che la legge canadese richiede solo 10 giorni per accedere alla “buona morte”, quando in Svizzera una richiesta di assistenza al suicidio presso una organizzazione può necessitare di molti mesi per ottenere l’avallo delle autorità.

Un' idea di dignità come prestazione

Le motivazioni addotte nelle richieste di MAiD sono cambiate in modo significativo negli ultimi anni, con il dolore fisico che ora rappresenta una frazione ridotta dei casi: la maggior parte delle richieste è motivata da sofferenze psicologiche ed esistenziali, su tutte la perdita di autonomia e l'incapacità di svolgere le attività quotidiane, o ancora la sensazione di essere un peso e l'isolamento sociale.

In questo contesto, come ha fatto notare il professor Didier Caeneepel (che insegna teologia morale all’Università di Friburgo, dopo essere stato a lungo docente a Ottawa) nel corso di un recente seminario indetto dalla Commissione di bioetica della Conferenza episcopale svizzera, il concetto di "dignità umana" sembra ridursi alla capacità di mantenere il controllo sulla propria vita, e la sofferenza psicologica è percepita come insostenibile.

In tal modo, la pratica della “assistenza al morire”, attivamente proposta come normale alternativa di cura, è diventata in una risposta comune a stati di fragilità e solitudine, alimentando una crescente accettazione sociale della morte assistita come "soluzione dignitosa".

Come evidenziato dai numeri e dalle tendenze in aumento, questa pratica tende a trasformarsi da opzione estrema ad alternativa quasi "normale" alla sofferenza, relegando in secondo piano l'importanza di sostenere e accompagnare chi vive in situazioni di fragilità.

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