IL FEDERALISTA
La COP29 e il petroliere autocrate di Baku
Dietro le trattative si nasconde l’inconfessabile acquiescenza dei Paesi europei verso il padrone di casa Ilham Aliyev

Redazione Il Federalista

Della COP29 si parla come di un evento nato, purtroppo, sotto la stella di un fallimento annunciato. La stessa location scelta dall'ONU per questa nuova mastodontica edizione della "Conference of the Parties" (oltre 50mila partecipanti), ovvero Baku, presenta i tratti della beffa, i medesimi che avrebbe un simposio internazionale sui diritti della donna organizzato a Teheran sotto l'egida dell'ayatollah Khamenei.

Cerchiamo oggi di capire le ragioni di un’intesa quasi impossibile, perché compromessa dalla chiusura sui propri interessi di Paesi occidentali e Paesi emergenti da una parte e dalle inamovibili pretese miliardarie dei Paesi in via di sviluppo dall’altra. Ma dietro le trattative si nasconde l’inconfessabile acquiescenza dei Paesi europei verso il padrone di casa Aliyev, l’autocrate azero seduto sui lucrativi pozzi di petrolio e gas del suo Paese e che pratica indisturbato, oltre alla repressione interna del dissenso, una vera e propria operazione di pulizia etnica nella regione sottratta militarmente all’Armenia.

Il padrone di casa, l’autocrate Ilham Aliyev, ha fatto dell’Azerbaigian un gigantesco pozzo petrolifero nonché la piattaforma di “lavaggio” e smistamento degli idrocarburi russi “sotto sanzione” verso Paesi (vedremo quali) che ne hanno disperato bisogno ma non vogliono sporcarsi le mani. Mentre la COP, ricordiamolo, è un organismo onusiano concepito per contrastare le emissioni carboniche. E non è tutto, anzi, il peggio ha un altro volto, quello di una pulizia etnica di fronte alla quale tutti, diplomazie e media, preferiscono voltare lo sguardo. Ma procediamo con ordine e riavvolgiamo il nastro.

La COP apertasi l’11 novembre mette a tema le modalità di finanziamento delle misure necessarie per “adattarsi al riscaldamento”. La conferenza sta incontrando difficoltà significative nel raggiungere un consenso tra le nazioni partecipanti. I negoziati sono incentrati sull’avvio di un nuovo piano, o “nuovo obiettivo finanziario per il clima post-2025 (noto come NCQG)”, inteso a fornire ai Paesi più poveri i fondi necessari per attuare misure di adattamento al clima e di protezione le popolazioni. Le nazioni più vulnerabili, come molte africane e i piccoli Stati insulari, chiedono contributi molto più ambiziosi rispetto al precedente obiettivo.

Dal 2022 i Paesi europei, nordamericani, più Australia e Giappone contribuiscono con un fondo da 100 miliardi l’anno. Sul tavolo c’è però la proposta, con una formulazione avanzata pure dalla Svizzera, di allargare i Paesi contributori a tutti i grandi inquinatori, includendo nel loro novero, ad esempio, Arabia Saudita, Cina, India, Brasile e Indonesia. Paesi che tuttavia rispondono picche, rinfacciando all’Occidente le emissioni degli ultimi 150 anni e più. Al contempo però questi stessi Paesi “refrattari” sono in prima fila nel chiedere che il fondo NCQG sia portato da 100 miliardi a 1300 miliardi l’anno.

Alcuni leader, tra i quali Macron, hanno proposto nuove tasse globali su combustibili fossili e transazioni finanziarie, potenzialmente in grado di generare centinaia di miliardi di dollari. Proposte che tuttavia si scontrano con opposizioni politiche significative, soprattutto da parte degli Stati Uniti, dove il risultato delle recenti elezioni presidenziali aggiunge incertezza agli impegni futuri sul clima.

La stessa presidenza azera del summit, che doveva presentare un piano per istituire un “Fondo di azione finanziaria climatica (CFAF)” addebitato ai produttori di combustibili fossili, con un numero di prestidigitazione ha fatto sparire il CFAF dalla scaletta delle sessioni principali (il fondo è contestato anche da molti militanti ambientalisti, contrari di principio all’idea di finanziare la lotta al cambiamento climatico con soldi generati dagli idrocarburi).

Inoltre - altro oggetto del contendere - mentre i Paesi sviluppati preferirebbero mobilitare crediti privati, le nazioni povere insistono per sovvenzioni a fondo perduto, temendo che nuovi prestiti aggravino il debito. Su questo è intervenuto anche il Vaticano, tramite il Segretario di Stato Parolin, sostenendo che nuovi debiti sarebbero problematici. Sarebbe anzi opportuno -ha precisato Parolin- agire per il condono dei crediti pregressi eccessivi che zavorrano i Paesi più poveri. Con una bozza di accordo attesa nei prossimi giorni, i negoziati restano appesi a un filo.

L’ospite è un despota, un petroliere ...

Dal 2011, dopo lo scoppio delle Primavere arabe, il regime di Aliyev ha iniziato a reprimere i movimenti pro democrazia e, tra questi, anche i gruppi ambientalisti.
D'altra parte è lecito dubitare dell'impegno di questo autocrate per accelerare la fine dell’era dei combustibili fossili.

L'economia dell'Azerbaigian, e con essa il potere politico di Aliyev, si regge abbondantemente sugli idrocarburi. I combustibili fossili, petrolio e gas fossile, rappresentano oltre il 90% dei proventi da esportazioni, il 60% delle entrate pubbliche e il 35% del Prodotto Interno Lordo.

Dando il via al vertice sul clima COP29 di Baku, il presidente dell'Azerbaigian ha sdegnosamente negato che l'Azerbaigian sia un "petrostato" e ha criticato la stampa internazionale, a partire da quella americana, che Aliyev ha tacciato di ipocrisia, essendo gli stessi USA il “più grande produttore di petrolio e gas del mondo” (che tuttavia rappresenta meno dell’8 per cento del PIL americano).

Ha ripetuto uno dei suoi leit motiv, ovvero che gli idrocarburi sono “un dono di Dio". Difficile dargli torto, al di là del flagrante conflitto di interessi con il suo nuovo ruolo di apostolo del clima, ma tutto sta nell’uso di questo dono.

Aliyev l’ha messo a frutto per costruire negli ultimi decenni una temibile forza militare al servizio dei propri disegni di autocrate vassallo dei signori di Mosca e Ankara. E se negli anni ‘90, sul finire dell’era sovietica, l’Azerbaigian era un Paese impoverito al tal punto da essere sconfitto in guerra dalla piccolissima Armenia (2,5 milioni contro i 10 milioni degli azeri), oggi Baku sta compiendo -nel silenzio imperterrito del mondo- un’operazione di pulizia etnica che rinnova l’incubo del genocidio armeno del 1915/6.

… e l’autore impunito di una pulizia etnica nell’Artsakh

Sullo sfondo di questa COP vi sono le ceneri ancora calde degli scontri armati tra azeri e armeni, che si sono conclusi l’anno scorso con la guerra lampo e la conquista da parte azera del territorio armeno del Nagorno-Karabakh; e vi sono soprattutto le immagini della fuga precipitosa di centomila abitanti armeni da una terra in cui la stessa civiltà armena rappresentava una presenza millenaria.

Una pulizia etnica della regione del Karabakh che si sta perfezionando con la distruzione graduale del patrimonio architettonico e monumentale, testimonianza della presenza armeno-cristiana in quell’area (una sessantina sarebbero i casi di demolizione documentati, con l’aiuto della fotografia aerea, dal programma di ricerca Caucasus Heritage Watch, promosso da archeologi delle università statunitensi di Cornell e Purdue).

Non è fuori luogo sollevare questa questione a margine della COP, perché la scarsa propensione dei Governi dei Paesi europei a intervenire sulla triste vicenda degli armeni del Nagorno-Karabakh, e in generale ad affrontare il tema dei diritti umani in Azerbaigian (regime autoritario con lati grotteschi) ha un legame diretto con il petrolio e il gas azero (di cui diremo tra poco).

Ha dell’incredibile che il regime di Ilham Aliyev si stia rifacendo l’immagine promuovendo i progetti green proprio nel Nagorno-Karabakh, dove al contempo il regime sta promuovendo una colonizzazione con l’insediamento di 130mila azeri musulmani nella regione.

Aliyev nei giorni scorsi si è peraltro scagliato contro ong e media europei che hanno messo a tema le numerose contraddizioni della COP azera, con il risultato che ieri Agnès Pannier-Runacher, ministra dell’ambiente francese, (Paese con la più influente comunità armena in Europa), ha cancellato il suo previsto viaggio a Baku (la Francia sarà ora rappresentata solo da una delegazione tecnica).

La dipendenza da Baku

Non tutti però possono permettersi di fare la voce grossa. Aliyev, rispondendo alle critiche, ha tenuto a ricordare come sia stata l'Unione Europea a richiedere e firmare un accordo per ottenere più importazioni di gas dal suo Paese, al fine di ridurre la dipendenza da Mosca dopo l'invasione della Russia in Ucraina (accordo valido fino al 2027).

La stessa presidente della Commissione UE Von der Leyen si era spinta negli scorsi anni a definire il presidente azero un "partner affidabile dell’Unione Europea".

Particolarmente condiscendenti con il sinistro figuro alla guida del Paese caucasico sono da tempo i Governi italiani, non escluso quello in carica. I nostri vicini hanno le mani quasi legate, considerata la forte dipendenza della Penisola dal gas naturale. Tanto che l’Italia rimane in prima linea nella promozione del gasdotto TAP, che parte dalla sponda azera del Mar Caspio e attraversa Georgia, Turchia, Grecia e Albania e approda in Puglia: una via di transito che permetterebbe dunque all’Italia di rivendere ad altri Paesi europei come la Germania, l’Austria o -anche- la Svizzera il gas di origine “azera”, ma che in realtà potrebbe benissimo essere russo, considerati i fervidi rapporti, con tanto di accordi commerciali, che Baku continua a intrattenere con la Russia di Putin.

In Svizzera qualcosa si muove

Nel nostro paese è stata la Commissione di politica estera del Consiglio Nazionale, consultata sulle posizioni elvetiche portate alla COP29 dal capo della divisione Affari internazionali dell’Ufficio federale dell’ambiente Felix Wertli e, nella sessione conclusiva, dal Consigliere federale Albert Rösti, a prendere l’iniziativa di chiedere che la nostra delegazione sollevi con le autorità azere la questione del Nagorno-Karabakh e si impegni per una soluzione di pace nella regione.

Oltre a ciò la Commissione, con una maggioranza interpartitica, ha approvato la mozione di Nicolas Walder (Verdi) e Erich Vontobel (UDF) che incarica il Consiglio federale di organizzare al più presto un forum internazionale per la pace al fine di negoziare il ritorno degli armeni del Karabakh nella loro terra a condizioni giuste e con le necessarie rassicurazioni riguardo la sicurezza delle persone.

Ad un precedente atto parlamentare dello stesso Vontobel il Consiglio federale ha risposto due giorni fa: “La delegazione svizzera che parteciperà alla COP29 a Baku si concentrerà principalmente sui negoziati sul clima, conformemente al mandato negoziale conferito dal Consiglio federale”, lasciando intendere che quella del vertice climatico non sarà la sede per porre il tema sul tavolo. Del tema vi avevamo parlato qui.

 

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