"Nessuno però, neppure Darwin, aveva mai messo la questione nei termini che oggi dominano il discorso ecologico, quelli della catastrofe assoluta"
di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato su ilfederalista.ch
Tornando su quelle parolone, “antropologia”, “post-moderno”... In realtà, nessuno qui vuole negare la nobiltà del movimento ambientalista nei suoi intenti e nel grande lavoro di ricerca che l’ecologia ha sviluppato negli ultimi decenni. Eppure…
Eppure, se proviamo a guardarci dentro, c’è qualcosa di molto profondo, qualcosa che possiamo chiamare tranquillamente “paura”, anche “terrore”, ma più a fondo ancora “lutto anticipato”. Qualcosa che non va ridotto a psicologia ma va scrutato, sia dal punto di vista storico sia –diciamo arditamente- esistenziale.
Anzitutto, ricollegandoci alla storia stessa della scienza, ci dovremmo chiedere dove e perché abbiamo smarrito lo sguardo ottimista dei Lumi, appunto, e della modernità sulla realtà, penetrata nei suoi segreti dalla scienza. Modernità che, pur sorvolando sulla finitudine del mondo terrestre, aveva in chiaro che le specie, vegetali e animali, evolvevano, scomparivano e lasciavano posto ad altre. Nessuno però, neppure Darwin, aveva mai messo la questione nei termini che oggi dominano il discorso ecologico, quelli della catastrofe assoluta.
Ferita, risentimento, stupore
Al grido di “biodiversità” (parola che a tutti allarga la mente e il cuore) facciamo bene a contestare l’iper industrializzazione e l’uso consumistico delle risorse naturali. Ma non possiamo fingere di non sapere che di crisi di estinzione la storia del pianeta ne ha già conosciute più d’una. Fa spavento, certo, ma occorre fare i conti con quello che la benedetta scienza ci predice tetragona, ovvero che la Terra è destinata a raffreddarsi e, visto che il sole esploderà, neppure su Marte ci sarà scampo per Musk e compagni. L’umanità, le sue civiltà saranno state una stupenda, minuscola parentesi.
Con la nostra eroica ecologia ci battiamo per rallentare l’ineluttabile. Bene, ma spesso nel medesimo tempo coltiviamo in noi una sorta di risentimento. E quella disperazione che abbiamo chiamato –nella scia di un filosofo contemporaneo- “lutto anticipato”. Il filosofo, Fabrice Hadjadj, sviluppa questa riflessione in margine al suo libro più recente, Le Dieu des bêtes (un libro scaturito dalla sua passione per gli animali e a loro dedicato). La sua genialità sta nel notare che questa ferita, questo lutto, questa disperazione presuppongono che “dietro vi sia la meraviglia. “Se gemo di fronte alla ferita è perché dietro c’è questa meraviglia”.
Continua Fabrice Hadjadj: “Non avrei amarezza se non aspirassi a qualcosa, non sarei disperato se in fondo non fossi fatto per una certa speranza” E cita Rilke: “’Solo la lode apre uno spazio al lamento’. Se grido, se ho l’angoscia di morire è anzitutto perché mi sono meravigliato davanti alla vita”. E ancora, il suo amatissimo Chesterton: “Il mondo non morirà mai per mancanza di meraviglie ma unicamente per mancanza di meraviglia”. Ma se queste meraviglie sono incessantemente ferite?
"Se c’è tutta questa meraviglia non è invano"
Se tu sei "meravigliato davanti al volto di un bambino –ragiona il filosofo-, quando questo bambino è aggredito, sfigurato, questo ti ferisce. E quando tu vedi questa diversità delle specie viventi e al tempo stesso vedi che è una diversità minacciata, questo è talmente terribile che rien ne va plus…”.
La sfida è ritrovare uno stupore malgrado il male, smettendo di guardare solo la ferita. E lasciare che lo stupore apra le domande più umane: qual è la sorgente di tutto ciò? Perché c’è tutto ciò? “Se c’è tutta questa meraviglia non è invano. È il segno di una sovragenerosità che è all’opera misteriosamente ma che passa per le prove, passa per il sacrificio”.
Ma siamo in un mondo – ricorda con realismo il filosofo- che non cessa di sfuggire in avanti per non porsi le domande essenziali. Lo diceva Bernanos: “La modernità è una cospirazione contro ogni forma di vita interiore”.