IL FEDERALISTA
Formati per NON insegnare
Intervista al professor Fabio Camponovo sul caso scoppiato al DFA: "Questo pasticcio è un'invenzione ticinese"

Articolo a cura della redazione de ilfederalista.ch

LUGANO - Fabio Camponovo è stato docente di italiano nei nostri licei, nonché formatore nell'ambito degli istituti cantonali di abilitazione. Ha insegnato per oltre trent'anni didattica dell'italiano all'Università di Friburgo. È autore del volume Il mestiere dell'insegnante, di recente pubblicazione presso l'editore Casagrande (Bellinzona).

Professor Camponovo, lei non ha l'impressione che in questi giorni sia scoppiato un bubbone che ha origini lontane e si stava gonfiando di anno in anno? Non è la prima volta che il DFA abilita futuri insegnanti (e non solo di italiano) che tali dovranno restare per anni (se non a vita, giacché molti “abilitati” in passato hanno preso altre strade professionali).
"In Ticino la formazione degli insegnanti (alludo qui all'abilitazione per i settori secondari: scuole medie e medio superiori) non ha mai goduto di buona fama. Da quando è stata introdotta come obbligo per accedere alla professione non ha mai convinto né per la qualità offerta né per il modello di formazione proposto (prima IAA - Istituto di abilitazione e aggiornamento-, poi ASP –Alta scuola pedagogica- e infine, nel 2009 al DFA –Dipartimento formazione e apprendimento all'interno della SUPSI)".

Quando iniziano i problemi di squilibrio tra abilitati e posti di lavoro?
"Quando avviene un vero cambio di paradigma, cioè nel momento in cui si è passati da un modello che prevedeva dapprima la selezione da parte del datore di lavoro (il DECS) e successivamente la formazione, al modello opposto: prima la formazione per ottenere un diploma professionale post-universitario e solo dopo la prova d'assunzione. È con questo secondo approccio che nasce lo squilibrio fra l'offerta formativa da parte del DFA e la concreta possibilità di accedere a posti di lavoro. C'è una sorta di paradosso: l'aspirante docente deve prima faticare per accedere alla formazione (con selezione delle candidature da parte del DFA), senza nessuna garanzia di assunzione, poi può anche non trovare lavoro".

Questo “pasticcio” è un'invenzione ticinese?
"Direi proprio di sì, perché da un lato si promuove con il DFA l'idea di un diploma “universitario”, dall'altro si è costretto a considerare il fabbisogno reale attraverso il DECS (che demanda al DFA la formazione). A volte, non certo da quest'anno, l'offerta e la domanda non coincidono. Si può ben capire che per il bacino di riferimento romando o della Svizzera di lingua tedesca il discorso è diverso, ma per la nostra piccola realtà cantonale di fatto è un problema di non poco conto".

Si può immaginare che gli abilitati “beffati” stessiro zitti per non mettersi in cattiva luce in vista –se non altro- di possibili supplenze. Non è un bello spettacolo…, ma come mai all'interno di DFA e DECS non si affrontava l'inghippo?
"Non saprei che dire. Meraviglia che la questione non sia mai stata oggetto di approfondimento riflessione e si aspetti il caso dei tredici docenti di italiano in formazione per accorgersi che qualcosa non torna".

Fabio Pusterla, in un articolo pubblicato sulla “Regione” subito dopo lo scoppio del bubbone ha scritto che non gli è “mai capitato di incontrare un giovane collega che si dicesse contento e soddisfatto della sua esperienza formativa; al contrario, le lamentele ei mugugni sono ricorrenti”. Lei ha fatto un'esperienza diversa?
"Ciò che scrive Fabio Pusterla ha la forza propulsiva del grido “Il re è nudo”. Malgrado da molti anni l'insoddisfazione per la qualità della formazione offerta sia oggetto di denuncia, queste rimangono inascoltate passando sotto silenzio. Non si è mai voluto considerare delusione e frustrazione di chi ha incontrato obbligatoriamente le maglie dell'istituto di formazione. Col tempo, il DFA si è anche parzialmente allontanato dal rapporto diretto con la scuola (gli indirizzi formativi sono determinati altrove; tra i formatori c'è chi non ha mai messo piede in un'aula ecc.). Appena si nomina il ruolo del DFA nella scuola e la responsabilità che l'istituto assume nella proposta iniziale e continua della formazione docente, le risposte fanno per lo più riferimento al rispetto delle norme stabilite dalla CDPE (Conferenza dei direttori della pubblica educazione) quasi che il vissuto e la delusione sperimentata dagli insegnanti in formazione e dai neoabilitati possa passare in secondo piano".

Lei, in un certo modo, è “del mestiere” perché, oltre che insegnante di italiano nei nostri licei per molti anni, è stato anche formatore, prima in Ticino e in seguito all'Università di Friburgo, che ha –cosa interessante- una sorta di accordo con il Ticino: ce ne può spiegare i termini?
"Ho sperimentato personalmente, come formatore, ogni modello: in Ticino IAA, ASP, DFA; a Friburgo l'insegnamento della didattica dell'italiano collocabile dentro un percorso di formazione universitaria. Friburgo non ha particolari accordi con il Ticino. Semplicemente è stata (e forse ancora lo è) l'unica università che offre questa opportunità anche per l'italiano come “lingua prima”, come lingua di cultura. Si tratta di un'offerta che lo studente universitario può integrare agli studi in lettere italiane (ovviamente comprensiva di stage pratici) che porta a un diploma riconosciuto sul piano nazionale. Quindi permette la partecipazione ai concorsi ticinesi senza passare dal DFA".

Perché gli altri Cantoni universitari in Svizzera affidano alle università il compito della formazione pedagogico-didattica e il Ticino invece continua a imporre a chi si è laureato e ha intenzione di insegnare di passare un intero anno al DFA, senza stipendio (e con il rischio di vedere finire tutto in fumo)?
"Francamente mi sfugge, ma se dovessi dire quale sia il paradigma più interessante per la formazione, direi senza alcun dubbio che è quello della “ formation en emploi ”, quando il docente si assume contemporaneamente la responsabilità della conduzione della lezione e quella di una preparazione riflessiva sul proprio ruolo. È forse una prospettiva che si è lasciata troppo frettolosamente da parte".
In Ticino, se oggi si volessero rispettare tutti i dettami del CDPE mi parrebbe logico, e quasi obbligatorio per l'italiano, costruire un rapporto stretto fra l'istituto di formazione e l'USI/ISI. Ricordo che anni fa ci si provovò e il progetto era in una fase di elaborazione molto avanzata, ma poi fu messo in un cassetto e sull'idea scese il silenzio".

Per decenni si è fatto a meno di una particolare formazione pedagogico-didattica, sembrava che in qualche modo, quasi per osmosi, essa avvenisse nell'ambito dell'insegnamento accademico, cioè all'interno della cosiddetta "trasmissione dei saperi" tra docenti e studenti universitari. Perché a un certo punto si è sentita questa necessità? E, soprattutto, che genere di formazione pedagogico-didattica è stata introdotta, in risposta a quali esigenze culturali e sociali (sia pur tenendo conto delle diverse esigenze che caratterizzano le scuole elementari da quelle medie e dai licei)?
"Questo è un tema di particolare importanza. Sarebbe necessario aprire una riflessione partecipata sulla natura del lavoro didattico. Da qualche decennio si considera che per diventare insegnanti occorra avere una formazione specifica di tipo pedagogico-didattico. Insomma, insegnanti non ci si improvvisa ma ci si forma. Credo che il principio sia sacrosanto, ma a condizione che non si identifichi poi la professione docente con il semplice possesso di una strumentazione didattica. L'insegnante è qualcosa di più, ha ben altra natura. È una persona che porta senso nello studio e che testimonia in classe di questo senso squisitamente culturale. Un ruolo di grande rilevanza politica, nel senso positivo del termine. È una persona che lavora con persone, e che, come diceva Hanna Arendt (che io ricordo spesso) è testimone del mondo e dei suoi valori nella relazione educativa. Io penso che questi aspetti meritino maggiore attenzione nei curricoli formativi".
 

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