L'avvocato ed ex municipale di Locarno: "L’atto di distruggere è stato possibile saltando qualche stadio decisionale, che ora andrebbe recuperato"
di Niccolò Salvioni
Quanto avvenuto tra sabato e domenica ad un’ala del già macello comunale di proprietà della città di Lugano è alquanto singolare, per la città, il Cantone e la Confederazione.
In coda ad una ennesima manifestazione non autorizzata degli autogestiti, proprio per protestare contro lo sgombero del centro sociale deciso dal Municipio precedente, con il pretesto dell’occupazione abusiva di un edificio nei pressi da parte di un gruppo di loro (poi ricomposta), delle forze dell’ordine multi-strutturate hanno prima sgomberato il centro sociale, di proprietà della città e concessa in uso agli autogestiti mediante Convenzione trentennale del 2002, per poi assistere alla sua distruzione da parte di mezzi meccanici, probabilmente assieme a quanto – ancora - ivi contenuto, di proprietà degli autogestiti stessi.
È impossibile valutare complessivamente l’operato delle parti interessate dopo solo quattro giorni d’informazioni frammentarie trapelate sui media, teoricamente soggette a segreto d’ufficio, e non desidero farlo con queste riflessioni. Si può però cercare di ipotizzare qualche possibile linea di tendenza.
Un disegno tattico contingente di polizia cantonale in appoggio a quella comunale, sembra abbia condotto parte dell’esecutivo comunale ad una decisione d’urgenza, poi attuata dalla polizia, che ora sta avendo e probabilmente – purtroppo - a sua volta avrà in futuro effetti politici, di ordine pubblico, sociale ed economico, maggiori della precedente politica che ha prediletto la non-azione.
Ed è ciò che preoccupa maggiormente: se la situazione già in precedenza, con il centro sociale attivo, sembrava essere poco prevedibile, ora, come tutti i conflitti all’arrivo della bella stagione, sembra esserlo ancora di meno.
Se prima il collettivo era concentrato nella zona ex Macello, ora è mobile e si sposta liberamente, purtroppo, non sempre pacificamente, con le sue eco che riverbereranno nel Cantone ed anche oltre.
Qualche riflessione preliminare desunta da fonti documentali:
a) La “rappresaglia” nel diritto di guerra
Nel diritto umanitario di guerra l'uso di alcuni tipi di armi è proibito. Una rappresaglia, in tempo di guerra, viene considerata come un tipo di arma, sotto forma di una ritorsione che va oltre a quanto normalmente permesso. Quando un belligerante commette una violazione del diritto internazionale umanitario, il nemico può, eccezionalmente, rispondere con un'azione che sarebbe normalmente illegale, a condizione che un avvertimento sia stato ignorato e che lo scopo sia quello di fermare la violazione, non di vendicarsi. La rappresaglia non deve colpire i civili o essere sproporzionata. (Manuale di diritto internazionale, 2 ed. Antony Aust, Cambridge, UK 2010, pag. 240).
b) I possibili problemi derivanti da gruppi autogestiti
Il problema dei gruppi autonomi autogestiti e che talvolta non è possibile definire chi è il referente, il corrispondente, non c’è un capo o un presidente fisso, ritenuto anche che con il tempo gli stessi cambiano. Decide la collettività. Si può aspettare davanti alle loro porte tre ore, tre giorni, non si troverà mai il loro capo, perché in una struttura “comunitaria”, auto-gestita, questo non c’è. È dunque necessario distinguere tra loro le persone interessate all’auto-gestione da coloro che non lo sono. Ciò determina problemi sia in caso di azione legale contro un collettivo, rispettivamente, al contrario, da appartenenti del collettivo stesso nel caso in cui questi vogliano intraprendere un’azione legale. Ciò non aiuta il potere giudiziario a risolvere problemi in tale contesto.
Il collettivo stesso può avere frange nel suo seno che potrebbero avere un’attitudine di disobbedienza civile o di anarchismo politico.
Si sono visti in questi giorni dei simboli come la freccia spezzata che ricorda gli squatter anarchici di Amsterdam negli anni ’70, oppure quello dell’anarchismo rappresentato dalla A cerchiata.
Senza volere con ciò sostenere che i Molinari siano “terroristi”, non va scordato che nel passato, in Italia, vi è stato un periodo, verso la fine degli anni ’90 e nel 2000, definito di terrorismo politico eversivo di matrice anarchica, o anarco insurrezionalismo, che fu caratterizzato anche dall’uso di esplosivi.
Oppure, prima ancora, l’anarchismo nell’Ottocento favoriva l’azione diretta nota quale “propaganda dell’atto” ove una politica drammatica, probabilmente anche illegale e possibilmente violenta, mirava ad eccitare l’attenzione delle masse ed ispirare la rivolta popolare.
Gli anarchici di Amsterdam o Amburgo negli anni ‘70 – ‘80 non presentavano petizioni nei parlamenti ma semplicemente occupavano edifici trasformandoli in cooperative costruite su ideali comunitari non gerarchici, sfidando politiche da loro ritenute irresponsabili ed agendo semplicemente come se gli stabili fossero già di proprietà comune.
Gli squatter anarchici speravano che con i loro atti avrebbero ispirato una rivolta più ampia non solo nei confronti di una politica pubblica ritenuta irrazionale ma anche contro la proprietà privata e lo Stato liberale. (cfr. William E. Scheurmann, “Civil Disobedience”, Cambridge, UK).
c) Il pericolo rappresentato dagli anarchici secondo il Servizio delle informazioni della confederazione (SIS)
Anche nel rapporto sulla sicurezza svizzera del 2020 del servizio delle informazioni della confederazione SIS, relativamente all’estremismo di sinistra violento, si legge:
“Gli anarchici agiscono in modo più violento rispetto agli estremisti di sinistra di orientamento marxista-leninista, ma sono nettamente meno organizzati”.
e ancora:
“Uno degli aspetti fondamentali è che gli ambienti dell’estrema sinistra violenta non sono un monolito: sia comunisti che anarchici hanno una propria idea riguardo al futuro, non tutti i temi mobilitano ogni singolo militante. Per quanto riguarda la violenza, gli atteggiamenti spaziano da una parziale disponibilità ad approvarla fino a farvi ricorso personalmente, in gradi differenti che vanno dai danni materiali all’incendio intenzionale o persino ad attacchi contro l’integrità fisica e la vita”.
d) Riflessioni sociologiche sulle possibili tecniche di contrasto al “terrorismo”
Come scritto dallo specialista di terrorismo Mark Juergensmeyer nell’opera “Terroristi in nome di Dio”, sebbene incentrato alle casistiche di terrorismo basato su teorie religiose, nel capitolo finale relativo alle varie opzioni per contrastare il terrorismo “Riconciliare politica e religione”, egli giunge alla seguente conclusione, in senso sociologico, condivisibile:
“Le soluzioni che ottengono i migliori risultati sono quelle create su basi morali, quelle che impongono alle parti in conflitto di applicare almeno un minimo di fiducia e rispetto reciproci. Questo rispetto aumenta e le possibilità di una soluzione di compromesso si rafforzano quando gli attivisti religiosi sentono che le autorità governative sono dotate di un’integrità morale nel conservare i valori religiosi o adattarsi ad essi. Questa, dunque, è la quinta soluzione: quando le autorità laiche abbracciano valori morali, compresi quelli associati alla religione” (Editori Laterza, 2003, pag. 263-264).
E, ancora, relativamente a coloro che ipotizzano l’applicazione della forza per contrastare il terrorismo, Mark Juergensmeyer rileva: “Un nemico laico belligerante è spesso proprio quello che gli attivisti religiosi sperano.” (Editori Laterza, 2003, pag. 254).
e) I limiti della libertà di opinione e di riunione, del diritto di manifestare e i mezzi “dissuasivi” ammissibili di secondo il Tribunale federale:
Il Tribunale federale, in una recente decisione (1C_181/2019), ha ricordato i limiti della libertà di opinione e di riunione e del diritto di manifestare.
In linea di principio esiste un diritto condizionato ad utilizzare il suolo pubblico per manifestazioni con effetto di appello. Le autorità dal canto loro sono tenute a adottare misure adeguate, quale una protezione da parte della polizia, per permettere che possano svolgersi e non siano disturbate da gruppi opposti.
L’ordine pubblico non lascia spazio ad espressioni di opinione che siano collegate ad atti illegali o che perseguano uno scopo violento. Conseguentemente, solo gli incontri pacifici rientrano nell’ambito di protezione dei diritti fondamentali. Se in un’assemblea inizialmente pacifica la violenza si sviluppa a tal punto da fare svanire completamente la componente di formazione dell’opinione pubblica, la protezione del diritto fondamentale può essere abbandonata.
Dei gruppi ribelli più piccoli ai margini della manifestazione non possono eliminare la tutela dei diritti fondamentali nel suo complesso. Il fatto che si ricorra alla violenza in un raduno originariamente pacifico non significa che la tutela dei diritti fondamentali vada perduta fin dall’inizio.
In tale decisione il TF ha anche preso posizione su eventuali misure con “effetto dissuasivo” o intimidatorie volte ad inibire la deriva illegale di una manifestazione. Nel caso concreto il legislatore bernese aveva stabilito di potere multare gli organizzatori di manifestazioni sfociate in illeciti, con multe fino a CHF 30'000.-. In tale occasione il TF ha ammesso tale sanzione ad effetto dissuasivo, dato che questa reggeva al controllo di costituzionalità ed era proporzionata, ovvero il provvedimento era idoneo e necessario a raggiungere lo scopo prefisso e sussisteva un rapporto ragionevole tra questo scopo e i mezzi impiegati, rispettivamente gli interessi compromessi.
f) La gestione di occupanti abusivi nel diritto di polizia germanico e la strategia del non-intervento:
Non è facile trovare nella letteratura svizzera di diritto di polizia elementi guida su come gestire occupazioni abusive.
Il Manuale di polizia germanico di Lisken/Denninger del 2021 (Beck Verlag, München) per certi versi, può essere considerato quale traccia per valutare un metodo decisionale di condotta di polizia nel contesto del suo ”Obbligo di intervento” in caso di occupazioni abusive.
Essi rilevano che la polizia, normalmente, ha un certo potere di discrezionalità, che, talvolta, si riduce a zero, comportando con ciò un obbligo di intervento (caso di “tolleranza zero”).
In caso di inadempienza, in caso di obbligo di intervento, ciò può dare luogo ad una richiesta di risarcimento nei confronti della polizia, per violazione del dovere d’ufficio, d’altra parte il dovere di intervento da parte della polizia può determinare una richiesta di intervento da parte di un cittadino.
Il metro di misura dell’obbligo di intervento della polizia è il valore degli interessi legali significativi minacciati: vita, salute o beni importanti.
L’assunzione di un obbligo di intervento presuppone che la prevenzione del danno possa avvenire con uno sforzo ragionevole senza trascurare interessi giuridici più importanti.
Degli sforzi irragionevoli e la collisione con altri compiti si possono opporre ad un dovere di intervento.
Per quanto riguarda il non-intervento, in deroga ad un obbligo di intervento, relativamente ad occupanti abusivi, questo può trovarsi nel fatto che, altrimenti, ci si aspettano dei disordini generati dagli occupanti.
I pericoli così causati possono pesare molto di più della continuazione del disturbo del possesso permesso dal non intervento.
Questa considerazione non può tuttavia giustificare un’inattività permanente da parte delle autorità, bensì – unicamente - giustificare un potere di discrezionalità tattica (non zero) di potere decidere quale sia il momento giusto per l’intervento.
Anche se, sulla base delle norme di polizia, questa può reagire con flessibilità, non spetta a tale quadro giuridico sviluppare dei progetti politici completi. Solo quando le considerazioni-quadro politiche sono diventate diritto positivo, e quindi parte integrante della sicurezza pubblica, queste possono trovare la loro strada nella discrezionalità della polizia.
La questione del “dovere di intervento”, si pone unicamente al momento in cui sussiste un “potere di intervento”, cioè se esistono i presupposti di fatto per una azione di polizia. La pianificazione operativa, le priorità e la tattica non appartengono al dovere di intervento, poiché le decisioni su tali ambiti si trovano a monte dell’intervento concreto.
Anche il “principio della sussidiarietà” dell’azione di polizia restringe ulteriormente le circostanze della discrezionalità dell’agire di polizia. Infatti, presupposto per un’azione di protezione di diritti privati è che la protezione giudiziaria non possa essere ottenuta in tempo e che, senza l’assistenza della polizia, la realizzazione del diritto ne risulterebbe ostacolata o resa molto più difficile.
In caso di occupazione abusiva, la questione può diventare rilevante se la polizia può rinviare al principio di sussidiarietà e rimandare il titolare del diritto leso ad uno sfratto civile da ottenere da quest’ultimo dalla Giustizia civile. Ciò è ipotizzabile, ad esempio, se una occupazione non è configurabile quale reato di violazione di domicilio.
Il “diritto d’intervento” della polizia deve essere disgiunto dal “dovere d’intervenire”. Solo se i diritti privati sono anche danneggiati l’autorità di polizia può essere indotta o obbligata ad intervenire, in caso contrario l’illegalità dell’inazione della polizia può essere fatta valere in tribunale.
Un diritto d’intervento presuppone, oltre al dovere d’intervenire, che ci sia un pericolo – almeno anche - per i diritti soggettivi dell’individuo.
Qualche potesi:
La demolizione intervenuta suscita l’impressione che qualche stadio decisionale di competenza politica esecutiva e forse anche giudiziaria, qualche catena procedurale, da parte di autorità comunali, cantonali e forse anche federali, purtroppo manchi all’appello. L’atto di distruggere è stato possibile saltando qualche stadio decisionale, che ora andrebbe recuperato.
I meccanismi collegiali interni di controllo reciproco, preposti al funzionamento ed al perfezionamento dei processi decisionali - anche di compromesso - dei poteri esecutivi statali, comunali e cantonali, sembra che, sabato notte, non abbiano funzionato come dovrebbero.
Verosimilmente, parte del Municipio di Lugano, con il concorso di parte del potere esecutivo cantonale, sembra abbiano adottato una decisione gordiana di vasta portata politica (per i parametri ticinesi), senza il conforto pianificatorio operativo preventivo, non solo dei competenti legislativi comunale e cantonale, ma senza apparentemente neppure sentire e coinvolgere il Municipio e il Consiglio di Stato, quali organi collegiali al completo, per addotti motivi di forza numerica inferiore presunta.
La decisione è stata adottata senza che il gremio collegiale municipale, dopo avere sentiti tutti i capo dicastero responsabili reperibili, abbia potuto consolidare e risolvere una soluzione di diritto positivo d’urgenza ponderata.
I possibili argomenti, quali freno interno ai gremi decisionali esecutivi, in tal modo, non sono stati sentiti e non hanno potuto essere “azionati”.
La supposta minoranza esecutiva, assieme al loro diritto di essere sentito, sembra essere stata ignorata. Entrambi gli esecutivi, comunale e cantonale, sembra abbiano deciso divisi, senza il coinvolgimento dei presunti contrari, lasciati da parte quale minoranza assodata che non conta. Lo stesso problema di funzionamento istituzionale ridotto si è curiosamente presentato contemporaneamente in due livelli esecutivi Sovrani.
Se l’espulsione dall’immobile era stata decisa dal vecchio Municipio con maggioranza risicata, il Consiglio Comunale, proprietario dell’immobile, non aveva – ancora - deciso di distruggerlo.
A maggiore ragione ci si può chiedere come parte del Municipio, decidendo quanto era di competenza del Consiglio Comunale, potesse anche decidere, quale conseguenza, di distruggere tutto quanto rimaneva all’interno del centro sociale, senza dare ai legittimi proprietari la possibilità di rimuovere i propri beni per tempo oppure senza metterli in sicurezza.
Non è noto se l’autorità municipale abbia dato un ultimatum di questo tipo. L’applicazione della decisione di solo sgombero, sempre che potesse essere attuata, decisa a maggioranza risicata dal vecchio Municipio, probabilmente, avrebbe comunque permesso ai legittimi proprietari di tali beni mobili di rimuoverli, impedendo la loro contemporanea distruzione sotto le macerie dell’immobile.
La concitazione determinata dagli eventi ha – forse - indotto parte del Municipio ad abbreviare la procedura decisionale ordinaria, non solo omettendo d’interpellare i colleghi di Municipio contrari, ma anche non seguendo le tappe decisionali necessarie per prendere una decisione di distruzione di un bene comunale amministrativo, dal 2002 sottoposto a concessione d’uso trentennale di usufrutto gratuito agli autogestiti sulla base della Convenzione del 18 dicembre 2002 con Comune e Cantone, che competerebbero, per ratifica, al Consiglio comunale, e, per quanto concerne il ruolo del Cantone, come indicato parte anch’esso alla Convenzione come pure nel contesto della politica di promuovimento della cultura giovanile e del mantenimento della pubblica sicurezza, al Gran Consiglio.
In seno al Municipio sembra si sia coalizzata una maggioranza che, in un momento fatale di decisionismo autocratico, pare abbia manifestato assenza di rispetto per le minoranze, come se non contassero istituzionalmente, escludendole dalla co-decisione nel novero di una decisione non-collegiale del Municipio, adducendo che comunque già si sapeva che gli esclusi contrari sarebbero stati in minoranza. Una minoranza di collegio magari intesa quale quantità negligibile, che si può anche non interpellare, non ascoltare già solo poiché minoranza.
La distruzione di un bene pubblico occupato può avere un senso immediatamente dopo un tentativo di occupazione sventata, quando questo è ancora vuoto e disorganizzato, per evitare che il tentativo venga reiterato e l’oggetto diventi teatro di tensioni pubbliche e comunque in flagranza di un reato di violazione di domicilio. Diverso è quando un immobile è in stato di concessione d’uso formale dal 2002, vi sono in atto trattative con le autorità competenti su un possibile cambiamento di destinazione e nella sede vi sono verosimilmente ancora contenuti beni di proprietà dell’autogestione. Distruggere, un tale luogo in queste condizioni, significa elevare la superfice risultante a rango di monumento alla memoria.
La decisione di distruzione quasi subitanea dell’involucro (del comune) e dei beni mobili ivi contenuti (di proprietà del collettivo) verosimilmente non poggiava su una sufficiente base normativa formale né politica né giudiziaria, quest’ultima intesa quale via sussidiaria percorribile sulla base della Convenzione in essere tra le parti, rispetto all’azione immediata di polizia.
Ciò conduce purtroppo, per ora, ad una prima impressione d’illegalità decisionale, o comunque di una legalità incompleta poiché, non consolidata da processi decisionali formalmente completi, avente valenza di rappresaglia non giustificata e sproporzionata. È triste fare queste ipotesi, ma, purtroppo, per ora, questo è quello che appare dall’esterno.
Di fatto, la situazione politica, ora, è peggiore rispetto a quella prima dell’intervento.
Talune autorità dovranno rispondere in via di “sanatoria”, a posteriori, rispetto al fatto autorizzato. Il dibattito politico, che forse con la distruzione si sperava di portare definitivamente a tacere, continuerà, più di prima. Con l’aggiunta che ora toccherà a tutto il Municipio difendere posizioni difficili, non essendoci più variabili possibili se non difendere la “propaganda dell’atto” già irreversibilmente allora attuata apparentemente dopo decisione da una sola parte dei collegi esecutivi competenti dello Stato e non ancora da parte dei parlamenti. Ciò esacerberà ancora di più gli animi.
La spaccatura inizialmente politica ha assunto la valenza di spaccatura istituzionale trasversale, che parte dal Comune fino ad intaccare – analogamente - l’esecutivo del Cantone.
Una emergenza da sabato sera su un tema controverso ha sopraffatto la collegialità, senza che il tema della demolizione, quale scenario operativo, sembra fosse stato discusso preventivamente né in condizioni normali né in stato emergenziale dai plenum, né dal Municipio né dal Consiglio di Stato.
L’importanza e multiformità dei problemi connessi alla procedura di distruzione, esigeva una decisione collegiale, o preventiva o di emergenza, possibilmente unanime degli esecutivi, visto che comunque la competenza decisionale era sostanzialmente dei legislativi. Senza queste, o comunque senza delle decisioni collegiali di maggioranza, la polizia, verosimilmente, dal canto suo, non avrebbe potuto avviare le operazioni di distruzione.
I beni di polizia in gioco evocati non giustificavano la rappresaglia della demolizione dell’involucro dell’ex-macello.
Ciò, a maggiore ragione, se si considera che con questa azione, a sua volta, si sono distrutti anche i diritti superiori alla proprietà ed alla storia culturale del movimento di auto-gestione giovanile luganese. Un patrimonio, anche culturale ed artistico, è stato cancellato. Simbolicamente, una forma di iconoclastia in chiave nostrana.
Il Centro sociale, o quantomeno parte di esso, non poteva forse essere considerato un patrimonio culturale degno di protezione? Oppure, forse, è stato utilizzato per giustificare, politicamente, la necessità di avere un antagonista, per fomentare così la politica dei nemici, dei diversi, da odiare e punire, non solo politicamente ma anche finalmente con l’azione diretta dello Stato?
Il Ticino sta purtroppo raccogliendo i frutti concreti di una certa politica dell’odio coltivata negli ultimi trenta anni, anche con ammiccamenti da parte di taluni esponenti dei partiti storici.
Parte dell’autorità esecutiva, dopo avere fatto sgomberare l’immobile occupato da quasi venti anni - immediatamente dopo - con parvenza di rappresaglia per quanto subito nel passato, ne ha permesso la distruzione, senza neppure un avvertimento.
Con ciò lo Stato ha al contempo distrutto non solo l’immobile che faceva parte del patrimonio della città, ma anche il simbolo e monumento alla cultura alternativa luganese, oltre a quanto vi era dentro, forse anche parte della sedimentazione di anni di storia di cultura alternativa. Anche se non lo si voleva, o non lo si è voluto pensare, la decisione politica attuata sembra avere valenza analoga ad una forma di “rimozione culturale”.
Un danneggiamento di beni, quali ad esempio l’immobile del comune ed i beni mobili dell’autogestione, se effettuato in occasione di un pubblico assembramento, andrebbe perseguito penalmente d’ufficio dal Ministero Pubblico.
Occorrerà comprendere quali reazioni vi saranno da parte dei giovani appartenenti al movimento di autogestione e i loro sostenitori, feriti moralmente e materialmente da questo atto di forza, taluni dei quali magari, anche, traumatizzati. Giovani che abitano da noi ed hanno delle famiglie.
Quanto avvenuto sta polarizzando politicamente e socialmente il Ticino, dividendo ancora più le “tifoserie” “politiche” e permette di fare affiorare, anche nei media sociali, manifestazioni di odio, incitazione alla violenza, discriminazione ed ingiurie aventi una carica di violenza ed acredine inaudite. Non è il Ticino che conosciamo. Assistiamo ad una deriva politica inquietante, su cui è un dovere riflettere.
Il futuro della Città, l’immagine del nostro Cantone e della Confederazione è ora, paradossalmente, nelle mani di coloro ai quali una parte dello Stato ha tolto con la forza il possesso degli spazi e forse anche dei beni dedicati all’autogestione, distruggendoli. Le luci della ribalta sono su di loro quali vittime di una – speriamo - eccezionale prevaricazione di - una parte - del nostro Stato verso una minoranza.
Cosa faranno, dove andranno, come si comporteranno, mentre le fazioni opposte li sbeffeggiano?
A tutti gli autogestiti, ora, incombe una grande responsabilità: devono dare prova di maturità e della dignità Umana cui hanno diritto, ignorando le provocazioni.
Non solo la Città di Lugano, i suoi cittadini e la sua Umanità dipendono, molto, assieme a tutto il nostro Cantone, da loro. Sarà ancora possibile ricucire gli strappi e ritrovare un po’ di calma?
Devono ricordare che il mondo, al di fuori della “zona grigia”, priva di controllo, dell’area autogestita, funziona in modo diverso ed implacabile.
Avranno bisogno di maturità per evitare di cadere, fuori dalla loro casa autogestita, nelle trappole del diritto penale. È da sperare che evitino reazioni scomposte nonostante il sopruso nei confronti della loro dignità ed eredità culturale, in modo da evitare che lo Stato di diritto, inflessibile, debba poi – ancora - sanzionarli.
La spirale di violenza deve in qualche modo terminare.
Spero che la cultura giovanile autogestita di Lugano e i suoi simpatizzanti, nonostante l’offesa patita, sappiano gestire bene la propria libertà di opinione e del diritto di manifestare, rispettando la proprietà dello Stato e dei privati, l’incolumità fisica dei cittadini e anche delle autorità e delle forze di polizia, queste ultime chiamate costituzionalmente a difendere anche loro, senza violenza e nel rispetto reciproco. Ciò, da tutte le parti.
Quanto è stato deciso da una parte dello Stato, non lo è stato da tutti. Sia come effetto sia come metodo.
Ogni tanto, anche lo Stato più sbagliare. Talvolta anche in buona fede. Capita anche che, talvolta, lo Stato o la politica riconoscano i propri errori.
Molti ora, si attendono la prova tangibile che al sopruso non necessariamente segue il sopruso.
Sono i giovani autogestiti che credono nella cultura e nell’arte, che, in questo momento storico, in Ticino, possono dimostrare, alla politica, di meritare la fiducia per potere continuare, assieme, tale esperimento sociale di politica giovanile.
Talvolta, la ragione Umana, dal basso, può superare quella dello Stato o di parte di questo.
* avvocato, ex capo Dicastero sicurezza di Locarno