Autogestione a Lugano: le critiche e gli insulti da destra e da sinistra, le contraddizioni e il celodurismo. Con qualche riflessione su un dialogo possibile
di Andrea Leoni
Permettete qualche appunto personale. In questi giorni tumultuosi alcune mie riflessioni sulla crisi in corso tra autogestiti e Municipio di Lugano, hanno prodotto qualche critica pregiudizievole, e qualche grazioso insulto, da destra come da sinistra. Me ne compiaccio e ringrazio coloro - molti di più - che hanno compreso come tutta questa storia è più una somma di torti che di ragioni e che per questo occorre prendere ogni singolo episodio della vicenda, senza tacerne alcuno, e raccontarlo in quanto tale, astenendosi da giudizi sommari e non facendosi distrarre dal rumore delle tifoserie. In questo intreccio caotico di responsabilità, d’irresponsabilià e di parecchia improvvisazione (o forse peggio), non mancano le contraddizioni. Inevitabili trattandosi di una faccenda politica. Fa solo tenerezza la gara a chi ce l’ha più duro sul piano della coerenza, quando si tratta di passioni e di democrazia.
E così dalla destra sono piovuti epiteti come zecca rossa, sinistroide (o sinistronzo, nell’accezione più accattivante con cui da pischello mi appellava Rodolfo Pantani), reggicoda dell’illegalità, portavoce dei brozzoni. Questo perché ho scritto, e detto, che la demolizione nottetempo dell’ex Macello è stato un atto violento, fascistoide (il fascismo era una cosa seria…) e illecito, perlomeno, al momento, per quel che il Municipio ha già detto di dover sistemare "in sanatoria". Perché ho scritto, e detto, che in una democrazia compiuta deve esserci spazio per la disobbedienza civile e per aver aggiunto che nelle rivendicazioni politiche dell’autogestione ci sono temi ignorati dall’agenda politica ma assolutamente centrali nella società contemporanea: la povertà, la solitudine, l’ingiustizia sociale, l’assenza di spazi di cultura e di solidarietà a pochi franchi. Perché ho scritto, e detto, che l’autogestione deve trovare spazio in una città aperta e moderna come Lugano, come del resto avviene in altri centri della Svizzera e dell’Europa. Dalla sinistra, invece, sono arrivate accuse di leghismo (e di fascismo, eccetera, eccetera, che noia, che barba, che barba, che noia), di cortigianeria, di servilismo rispetto all’autorità, di malafede nel soppesare le varie tessere del mosaico. Questo perché ho scritto, e detto, di provare orrore per i cori da Piazzale Loreto sotto casa del sindaco Borradori (e per aver definito intimidatoria e inqualificabile la marcia stessa). Per aver scritto, e detto, che i molinari hanno la responsabilità di aver fatto fallire ogni tentativo di dialogo negli ultimi due mesi e mezzo. Per aver condannato “senza se e senza ma” la sassaiola in stazione, la testata alla mia collega della Regione, i vandalismi e gli atti di teppismo compiuti nell’arco dei mesi e ancora sabato scorso a margine di una riuscita mobilitazione pacifica: un indubbio successo politico. Per aver ricordato che una parte importante dei luganesi ne ha davvero piene le scuffie degli eccessi degli autogestiti (anche se non li abbiamo visti sfilare in piazza).
Ribadisco tutto e alle critiche e agli insulti da destra e da sinistra rispondo quanto segue.
Sarà che gli anni, il lavoro e la vita borghese corrompono ideali e passioni - lo confesso e mi dichiaro colpevole davanti al tribunale del popolo e della Santa inquisizione dei moralisti in servizio permanente: fucilatemi pure! - ma la curiosità verso il pensiero altrui, qualunque pensiero, è rimasta immutata. Vorrei però qui dire che la mia esperienza giovanile m’impedisce di accettare sermoni calati dall’alto o da ruggenti conigli da tastiera che se la farebbero sotto alla sola vista di un agente in anti sommossa o di un politico rissoso (e molti di questi ti salutano, ti sorridono e si complimentano quando l’incontri per strada: smack!). Ho partecipato ad occupazioni di case e al blocco di strade e binari. Ho respirato lacrimogeni. Ho assaggiato il manganello. “Ognuno vada dove vuole andare/ognuno invecchi come gli pare/ ma non raccontare a me che cos’è la libertà”.
Mentre che a quella parte della destra che recita il mantra delle manifestazioni non autorizzate e degli scontri con le forze dell'ordine, rammento le legnate che si sono prese dalla polizia i militanti leghisti quando bloccarono il Ponte Diga o quando sfilarono con i somari in Piazza della Riforma (Michele Foletti, che c’era, lo ricorda spesso), così come la Carovana della libertà (una e bis), oppure più di recente, il blocco del Cisalpino alla stazione di Chiasso, condito da una sfracca d’insulti da parte dei passeggeri bloccati sotto la stecca del sole e sabotati nei loro piani di viaggio. Tutte azioni “illegali”, non autorizzate, ma che in realtà non sono altro che atti di disobbedienza civile. Un principio che ho sempre difeso senza tentennamenti che si trattasse di leghisti, di molinari, di Lisa Bosia Mirra, dell’occupazione delle Officine di Bellinzona, e di chiunque altro. Perché la disobbedienza civile non è altro che un sassolino nella scarpa della democrazia. Punge, infastidisce, innervosisce il potere costringendolo a chinarsi su un problema altrimenti taciuto o ignorato. Prima o poi tutti ne hanno bisogno.
Veniamo ai paradossi, alle iperboli, alle contraddizioni. Non si può non notare come chi sostiene l’autogestione, insieme a tutti coloro che hanno a cuore i pesi e i contrappesi che fanno una democrazia, attenda con fiducia che la magistratura (Procura ed eventualmente tribunali) faccia piena chiarezza, e senza sconti per nessuno, sugli avvenimenti e sulle responsabilità che hanno portato alla demolizione dell’ex Macello. Ma che cos’è la giustizia penale se non un potere dello Stato, il braccio repressivo dell’autorità costituita, che per far luce sui fatti si avvale peraltro dei servigi dell’odiata polizia? In questo senso come tacere che l’Ufficio da cui attendiamo le prime risposte, è lo stesso di cui è sostituto procuratore generale Nicola Respini, lo stesso magistrato oggetto dell’imbrattamento minatorio: “Respini guardati le spalle”, messaggio mafioso probabilmente ispirato dal decreto d’accusa emanato dei confronti dell’autrice della testata alla giornalista. E quindi come la mettiamo? Il celodurismo sulla coerenza s’ammoscia, come dicevamo prima. Per questo occorre restare modesti e fare un passo per volta.
E poi l’UDC. L’UDC che a Lugano con un artificio retorico (“autoderminazione” spacciata per “autogestione”, che vuole dire trasformare un centro sociale in un centro giovanile) vuole legittimamente bandire l’esperienza dello CSOA attraverso il voto popolare, mentre che a Bellinzona propone la creazione di una task force per aprire un negoziato con gli autogestiti, per preservare turismo ed economia dai moti di piazza estivi. Alziamo le mani: non abbiamo capito. Se io fossi un molinaro la prima contraddizione che metterei sul tavolo della trattativa è proprio questa: come possiamo negoziare una soluzione con la spada di democle di un’iniziativa pendente?
Qualche considerazione sul dialogo, infine. Ho ascoltato tesi lunari in questi giorni. Ad esempio Filippo Lombardi e Karin Valenzano Rossi sono stati criticati per essere andati solo una volta - ed aver atteso per ore un segnale - a chiedere udienza alla porta degli autogestiti. Devono andarci due, tre, cinque, dodici volte, è stato detto da qualcuno. E poi cosa ancora? Devono inginocchiarsi? Abiurare battendosi il petto? Calarsi le braghe e mettersi il dito in bocca? Cantare Bella Ciao? Ma siamo fuori di testa o cosa?! Un’istituzione non deve prostrarsi davanti a nessuno ne mendicare alcunché (e ogni volta che lo ha fatto, ed è successo, ne è uscita sfregiata e indebolita). Altrimenti come può un’autorità essere credibile verso tutti quei cittadini che attendono mesi per avere soltanto una risposta scritta (e magari neppure la ottengono). Pretendere una tale sottomissione non è anarchia, non è autogestione, ma soltanto arroganza e prepotenza. Se il Municipio di Lugano desidera essere un interlocutore autorevole e rispettato dalla controparte, deve essere innanzitutto forte, consapevole e orgoglioso di ciò che rappresenta.
Allo stesso modo anche l’autogestione deve esprimere e rivendicare fino in fondo il proprio ruolo. C’è chi pensa, ingenuamente, che si tratti soltanto di trovare un luogo per fare i concerti e sbevazzare: evviva il quieto vivere! E le istanze politiche e sociali? Non conosco una sola realtà autogestita che, di tanto in tanto, non ricerchi il conflitto con le autorità (non parliamo di scontri o violenze) come chiave di volta per promuovere le proprie tesi. E ciò accade, regolarmente, anche nelle esperienze dove i rapporti tra autogestione e istituzioni sono virtuosi. Chi creda possa esistere una realtà autogestita zitta e buona, confinata nei perimetri del centro sociale, pettinata e addomesticata nelle forme e nei toni, culla un’illusione. Non capire questo, significa non aver capito nulla.
L’auspicio è che da qui in avanti si possa procedere con realismo, partendo da concetti elementari che animano entrambe le fazioni. Il primo dei quali è che la pace si fa tra nemici - e più i principali protagonisti della vicenda si siederanno al tavolo, più sarà solido l’ accordo che ne scaturirà - e che nessuno deve aspirare a modificare una dinamica naturale che vuole istituzioni e autogestione come poli eternamente contrapposti. “Dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori”. Anche dalle macerie, talvolta.