ANALISI
A me basta l'abolizione dei livelli per appoggiare la "Scuola che verrà"
Si obbietta che in Svizzera si fa altrimenti. Che addirittura vi sono Cantoni dove si separano gli allievi già a 10 anni. Ma perché non all’asilo o nella culla, già che chi siamo!

di Andrea Leoni

Starò sulle generali perché è sulle generali che il cittadino medio prima valuta e poi si esprime nell’urna. La votazione sulla “Scuola che verrà”, non è altro che la riproposizione del grande classico tra i dibattiti in ambito scolastico: quello tra chi vuole una formazione obbligatoria più inclusiva e progressista e chi invece ritiene sia meglio puntare su un modello più conservatore e con accenti di competitività fra gli allievi, imposti sin dalla prima adolescenza. Alla fine, stringi-stringi, la questione è tutta qui.

Personalmente non ho dubbi: ero a favore dell’abolizione dei livelli, uno degli elementi chiave della riforma, sin da quando frequentavo le scuole medie. E non ho cambiato idea. Ricordo che all’epoca, insieme ad alcuni compagni del Consiglio degli allievi, mettemmo su un piccolo comitato per chiedere la cancellazione di questo sistema di selezione ingiusto, che piccona l’umore e le motivazione di studenti e famiglie. Una scrematura perfino umiliante, a quell’età, e che all’esterno della scuola viene percepito esattamente con la stessa etichetta appioppata dal sistema scolastico: o sei di serie A o  sei di serie B. Vedere che il ministro della scuola ticinese intende cancellare questa falsa, anacronistica e arbitraria separazione tra somari e intelligenti, mi restituisce oggi, a distanza di molti anni dai banchi delle medie, una sensazione di giustizia.

Si obbietta che in Svizzera si fa altrimenti. Che addirittura vi sono Cantoni dove si iniziano a separare gli allievi già a 10 anni. Ma perché non all’asilo o nella culla, già che chi siamo! Non vorremmo mica un giorno doverci pentire di aver tarpato le ali a qualche genietto in erba, per non averlo separato anzitempo dagli altri bambini o dal carillon. Se ripenso alla mia classe, ho visto ragazzi del corso A perdersi nella mediocrità dopo un brillante percorso obbligatorio, e allievi del corso B conquistare ottime posizioni sociali, dopo essere sbocciati un po’ più lentamente. Questi ultimi, però, hanno dovuto fare il doppio della fatica per risalire la china, senza averne alcuna colpa. A meno che si ritenga una colpa il processo individuale di maturazione. Se alcuni fra questi ragazzi, anziché essere parcheggiati nel purgatorio dei livelli B, fossero stati seguiti più da vicino, è verosimile credere che gli avremmo risparmiato un inutile fardello. Un peso che, non di rado, va a sommarsi a situazioni famigliari complesse, socialmente ed economicamente, che mal si conciliano con una buona resa scolastica. Il che dimostra plasticamente quanto sia assurdo questo tipo di selezione.

In molti Cantoni della Svizzera, si diceva, si fa in un altro modo. Ma questo avviene in molti altri campi. E per fortuna nostra, in qualche caso. Se pensiamo al sistema fiscale, ad esempio, il Ticino è trale regioni più sociali del Paese. Immagino che nessuno scambierebbe le statistiche approssimative della SECO sul mercato del lavoro con quelle puntuali e raffinate del nostro Ufficio di statistica. E ancora: il sistema degli assegni familiari ticinese è stato per molti anni un modello di assoluta avanguardia rispetto alla Svizzera tedesca e alla Svizzera francese. Noi, dove possiamo, dobbiamo fare quello che ci sembra meglio per i cittadini di questo Cantone, non avendo paura all’occorrenza di andare controcorrente rispetto al resto della Confederazione, quando i nostri progetti ci sembrano migliori.

Non c’è dubbio che la globalizzazione ha squassato anche i modelli formativi. La competizione ora è anche con gli studenti cinesi e indiani e il riflesso più evidente lo si avverte con prepotenza nel mondo del lavoro. Ma la nostra secolare cultura europea, ci insegna che la scuola ha il compito innanzitutto di formare persone e non prodotti da consegnare alle catene di montaggio del mercato, secondo le richieste del momento, di volta in volta. E resto convinto che questa nostra impostazione umanistica, oggi in crisi, vada difesa come una tessera preziosa del mosaico occidentale. 

Sarò scorretto, a questo punto. Uno degli elementi che più emerge in questa fase del dibattito, è il mugugno che una parte del corpo docente rivolge al DECS, lamentandosi per non essere stato debitamente consultato. Un vecchio ritornello, per la verità, sempre utile da canticchiare quando non si vuole arrivare a una decisione. È necessario intendersi: consultare non significa permettere ai consultati di scrivere una legge come gli pare e piace a loro. Se è infatti del tutto evidente che non si può fare una riforma scolastica contro la volontà dei docenti, è altrettanto chiaro che non possono essere gli insegnanti a cucirsi su misura la riforma stessa. Innanzitutto perché i maestri sono una delle componenti centrali della scuola, non l’unica. Immaginare il ministro della scuola come una sorta di sindacalista degli insegnanti, o come uno scriba dei loro desiderata, è uno strafalcione nella grammatica istituzionale. In secondo luogo non è sano in una democrazia che sia una corporazione a dettare le regole del gioco al quale partecipa come giocatore. Vale o dovrebbe valere per tutti: poliziotti, magistrati, imprenditori, sindacalisti, avvocati. La mediazione della politica, Governo e Parlamento, serve proprio a questo: a trovare una sintesi e a prendere la decisione finale, con la benedizione del mandato democratico di cui sono investiti gli eletti.

La sensazione è che molti - molto più banalmente rispetto alle grandi teorie e ai cavilli  - non vogliano affrontare un cambiamento. È umano: a nessuno piace che gli vengano stravolti i processi di lavoro. Credo che questo elemento sia stato ampiamente sottovalutato dai favorevoli alla riforma: avrà un peso. 

La sperimentazione, infine. I referendisti hanno utilizzato l’efficace metafora della cavia, per tratteggiare il profilo di quegli allievi che testeranno il nuovo modello, qualora il popolo acconsentirà. Con tutta la buona volontà, e con tutto lo sforzo di fantasia possibile, non riesco proprio a cogliere la similitudine tra allievi e topi da laboratorio. È infatti prassi corrente, soprattutto in Svizzera, che si sperimenti quando vi sono delle novità rilevanti. Lo abbiamo fatto in molti campi, dalle dogane alla circolazione, dalle pistole alle università. Sarebbe stato al contrario un grave errore, un atto di presunzione, non eseguire un test anche nella scuola.  

In tutto questo bisogna dare un merito importante a chi ha lanciato il referendum: AreaLiberale, UDC e Lega. È sacrosanto che su un progetto decisivo per il tessuto sociale ticinese e per migliaia di cittadini, si passi da un verifica popolare. È fondamentale perché il sistema scolastico deve essere in sintonia con la società e il tempo in cui viviamo. Chiedere agli elettori è la sperimentazione più efficace per saperlo. 

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