La Camera di commercio fa i conti in vista della consultazione popolare del 3 marzo
Articolo a cura della Camera ticinese di commercio
La previdenza per la vecchiaia è la più importante voce di spesa della Confederazione e l’AVS, simbolo stesso della solidarietà tra giovani e anziani, ricchi e poveri, rappresenta, senza dubbio, una delle colonne portanti del sistema svizzero delle assicurazioni sociali. È una scelta di grande responsabilità, dunque, garantire la sua sostenibilità finanziaria, la solidità e la sicurezza delle rendite anche per le nuove generazioni. Senza costringerle a dover pagare nel corso della loro vita lavorativa maggiori contributi salariali e più imposte, per il solo fatto che noi non abbiamo saputo gestire con oculatezza e lungimiranza le casse del primo pilastro.
Ecco perché è cruciale il prossimo 3 marzo un voto ragionato e basato sui fatti sull’iniziativa popolare “Vivere meglio la pensione”, per concedere una 13esima mensilità AVS - promossa dall’Unione sindacale svizzera, sostenuta dalla sinistra e da altre forze sindacali -, e sull’iniziativa “Per una previdenza vecchiaia sicura e sostenibile”, lanciata dai Giovani Liberali Radicali, che mira ad un consolidamento strutturale del primo pilastro, innalzando a tappe l’età della pensione a 66 anni entro il 2033 e adattandola in seguito all’aspettativa di vita. Per votare con cognizione di causa, senza lasciarsi fuorviare da slogan allettanti, occorre conoscere la reale situazione finanziaria dell’AVS, far parlare dati e cifre sul suo stato attuale e le tendenze future.
I numeri dell’AVS – beneficiari e contributi
Oggi ricevono la rendita AVS 2,5 milioni di pensionati (di cui 800mila all’estero, per lo più immigrati rientrati in Patria), con un importo medio di circa 1’800 franchi al mese, per una spesa complessiva di oltre 50 miliardi di franchi ogni anno. Le prestazioni sono finanziate sulla base del principio di ripartizione: oltre il 70% circa delle rendite è coperto grazie ai contributi versati dai datori di lavoro e dai loro dipendenti, ci sono poi una parte delle entrate dell’IVA e quelle derivanti dalla tassa sull’alcol, sul tabacco e dall’imposta sul gioco di azzardo. Complessivamente la Confederazione, attraverso il gettito fiscale, finanzia il 20,2% della spesa pensionistica, che per l’anno in corso equivale a 10,3 miliardi franchi, ossia più del 12% delle sue entrate totali.
Dopo cinque anni di cifre rosse, con le riforme del 2020 e del 2022, accettate in votazione popolare, si è assicurato il finanziamento dell’AVS sino al 2030 grazie all’aumento dei contributi salariali, il rincaro dell’IVA e l’armonizzazione dell’età pensionabile. Un apporto finanziario non da poco è stato assicurato nel corso degli anni anche da quel milione e mezzo d’immigrati, soprattutto dall’UE, che lavorando e risiedendo in Svizzera ha rafforzato il volume dei contributi versati per il primo pilastro. Si è così raggiunta una certa stabilità nelle entrate, ma soltanto sino al 2030, dopo di che, per non precipitare di nuovo nei ricorrenti deficit, bisognerà trovare altre soluzioni. Le proiezioni indicano, infatti, che dall’inizio del prossimo decennio, senza interventi correttivi, le uscite saliranno dai 50 miliardi dello scorso anno a 63,5 miliardi.
Quello attuale è, quindi, un equilibrio contabile temporaneo e molto delicato perché soggetto a diversi fattori: l’invecchiamento della popolazione, l’andamento demografico, la crescita del lavoro part-time o discontinuo che assottiglia il volume delle quote salariali, la speranza di vita che si allunga e il pensionamento di centinaia di migliaia di baby boomers, variabili che s’impatteranno negativamente sui bilanci del primo pilastro. Per questo il Consiglio federale dovrà presentare per la fine del 2026 un progetto di riforma in grado di assicurare una sostenibilità finanziaria più duratura per il primo pilastro.
Deficit miliardari
Oggi le riserve dell’AVS ammontano a 47 miliardi di franchi circa, nel 2030 sfioreranno i 70 miliardi. Settanta miliardi sembrano una gran bella cifra, ma in realtà non sono tanti. Bastano, infatti, a coprire appena un anno e poco più del totale delle rendite versate dall’AVS. Tant’è che già nel 2032, a causa dell’incidenza di quei fattori di cui si è detto sopra, le spese dell’AVS supereranno le entrate di 4,7 miliardi di franchi. A cui si aggiungerebbero altri 5 miliardi in più ogni anno, qualora l’iniziativa per la 13esima AVS venisse approvata in votazione popolare. Entrando nel dettaglio, questa tredicesima, ossia un aumento dell’8,3% delle rendite, provocherebbe un costo aggiuntivo di 4,1 miliardi di franchi all’anno a partire dal 2026, che saliranno a 5,3 miliardi dal 2033, per superare i 10 miliardi nel 2050.
Per garantire la sostenibilità finanziaria e la sicurezza delle rendite anche per le nuove generazioni
Secondo le stesse previsioni dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali, con la rendita supplementare il primo pilastro dopo il 2030 accumulerebbe di anno in anno deficit miliardari. È chiaro che per la tredicesima AVS i soldi non ci sono o, meglio, ci sarebbero forse oggi ma di certo non domani. A meno che per finanziarla non si ritocchi di nuovo verso l’alto l’IVA oppure, come si suggerisce a sinistra, aumentando dello 0,8% i contributi salariali e chiamando alla cassa anche la Confederazione che dovrebbe contribuire con un miliardo di franchi in più all’anno. E che sarebbe, perciò, costretta ad aumentare le imposte per non sottrarre fondi ad altre spese necessarie. Non affrontando comunque alla radice il vero problema: la forbice tra chi versa i contributi per il primo pilastro e chi ne beneficia si va allargando sempre più. Allo stesso tempo si è allungata l’aspettativa di vita per cui si riceve una rendita per molti più anni rispetto al passato. Quando nel 1948 venne istituita l’AVS c’erano 6 persone attive per ogni pensionato, nel 2020 questo rapporto è sceso a 3,3 e nel 2050 sarà di 2,2 attivi per un pensionato; a quell’epoca la rendita minima era di 40 franchi al mese, corrispondenti al 6% del salario medio di allora; nel 2022 si è arrivati a 1’195 franchi al mese, cioè il 15% del salario medio, dunque, 2,3 volte in più rispetto al 1948. Tre quarti di secolo fa la speranza di vita quando si raggiungevano i 65 anni, l’età della pensione, era di 12 anni per gli uomini e di 13 per le donne, nel 2020 si è arrivati ad una aspettativa di vita di oltre 20 anni per gli uomini e sino 22-23 anni per le donne. In sostanza, si percepisce la pensione molto più a lungo e il numero dei pensionati cresce più velocemente di quello degli occupati che con i loro contributi finanziano le rendite.
Serve un intervento strutturale
La maggiore aspettativa di vita, unitamente all’instabilità e alle fluttuazioni dei mercati finanziari, ha messo sotto pressione anche il secondo pilastro, tanto che anche in questo ambito occorreranno scelte strutturali sulle quali saremo chiamati a votare prossimamente.
Le tendenze delineate dall’Ufficio federale di statistica sono del resto chiare e indicano la necessità di adattamenti urgenti. Nel prossimo decennio, infatti, il numero dei pensionati aumenterà del 26%, del 41% tra 20 anni e del 54% tra 30 anni; quello delle persone attive invece aumenterà solo del 2% nei prossimi dieci anni, del 5% tra 20 anni e del 7% tra 30 anni.
Considerato l’impatto dell’andamento demografico e della speranza di vita più elevata sulle casse del sistema pensionistico, non si può ignorare la necessità di un intervento strutturale che corregga il pericoloso squilibrio tra entrate e uscite, per scongiurare deficit insostenibili e salvaguardare le rendite AVS per le generazioni future. Senza dover ricorrere ancora a nuovi oneri a carico dei cittadini. L’unica strada che può assicurare al primo pilastro stabilità e solidità finanziaria sul lungo periodo è, quindi, intervenire con un innalzamento graduale dell’età della pensione, legandola anche all’aspettativa media di vita.
Una soluzione più soft di quella già adottata da diversi Stati europei, che permetterebbe, inoltre, all’economia di preservare e impiegare più a lungo competenze professionali indispensabili per la crescita del Paese, oggi ipotecata dalla carenza di manodopera qualificata.