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Coronavirus
05.05.2020 - 17:310
Aggiornamento: 06.05.2020 - 10:57

Coronavirus: l'all in della Svizzera sulle riaperture dell'11 maggio

Nessun Paese del Mondo uscirà dal lockdown con le modalità decise dal Consiglio Federale. Servirà grande disciplina dalla popolazione e dai 70'000 frontalieri. Lo Stato garantisca le 3 T. E speriamo nel Generale Caldo

di Andrea Leoni

Partiamo da un dato certo: nessun Paese del mondo uscirà dal lockdown con le modalità decise dalla Svizzera. Non c’è una sola nazione, neppure tra quelle meno colpite o più avanti di noi nella gestione della crisi, come Austria e Germania, che ha scelto di aprire in un solo colpo, e in unico giorno, scuole, negozi, bar e ristoranti, musei, palestre, addirittura. Il tutto, per di più, senza introdurre alcun obbligo d’indossare la mascherina. Accadrà lunedì 11 maggio.

Il Consiglio Federale, in barba all’esperienza internazionale, dopo aver previsto un’uscita più scaglionata e ordinata dall'emergenza, ha scelto di fare un all in. Una puntata talmente anomala da far sorgere cattivi pensieri sul giocatore, sia da un punto di vista economico che sanitario. Per il Ticino ciò significa anche il rientro  al lavoro di 70’000 frontalieri. Da qualunque parti la si guardi, si tratta di una scommessa molto rischiosa.

Talmente rischiosa da aver unito nella critica il mondo medico e scientifico ticinese, che solitamente sulle strategie per fronteggiare il Covid19, esprime posizioni discordanti. Non in  questo caso. Da Mattia Lepori dell’EOC al presidente dell’Ordine Franco Denti, passando per Christian Garzoni e Giorgio Merlani, fino al Professor Cerny, tutti hanno espresso perplessità, per usare un eufemismo.

Il problema, in generale, è che una parte della politica affronta il problema rincorrendo i dati dei contagi e dei morti. Se crescono, scatta il coro: chiudere, chiudere, chiudere! Se calano, parte il contro canto: aprire, aprire, aprire! Ma questo non è un piano. È improvvisazione, una puntata al casinò, per l’appunto. Eppure, se qualcosa di prezioso ci ha insegnato questa dolorosa esperienza, è che a fare la differenza sono le misure preventive e non quelle reattive. 

Per imporre restrizioni preventive, però - come quelle che non siamo riusciti ad adottare all'inizio di questa crisi - occorre sposare una linea difficile, impopolare, coraggiosa. Servono Governi forti capaci di sopportare le pressioni economiche e popolari.

Riavvolgiamo il nastro e torniamo all’inizio dell'emergenza. Allora, per paura di agire per eccesso di prudenza - 0 contagi e 0 morti - non si chiuse immediatamente il Rabadan. E dovettero passare molti giorni prima di ordinare la serrata di ristorazione, scuole, negozi, palestre, cinema e i teatri.

Quell’indecisione la stiamo pagando a carissimo prezzo ancora oggi: 3’239 casi positivi e 329 morti. Numeri che fanno del Ticino - ricordiamolo sempre, per favore! - una delle aree maggiormente colpite al Mondo dal Covid19.

Poi però abbiamo recuperato, con chiusure rigide e generali, e con riaperture ragionate e con il contagocce. Il buonsenso avrebbe suggerito di continuare su questa strada, non cedendo al richiamo seducente delle sirene.

Il Canton Ticino è oggi come un ammalato che ha passato tre settimane in cure intense. Rimetterlo in piedi, tutto d’un colpo, l’11 maggio, rischia di condannarlo a una rovinosa ricaduta.

Il nostro Cantone avrebbe bisogno di un periodo di convalescenza, di rialzarsi piano piano, di fare un po’ di fisioterapia, di ricominciare a nutrirsi. Avremmo bisogno di monitorare i progressi. Capire gli effetti che provocano le singole aperture sui contagi. In modo, se del caso, da poter correggere e non da dover procedere a una nuova chiusura generalizzata, continuando a conservare il dubbio se la causa sono stati i negozi, i ristoranti o la scuola.

L’accelerazione impressa dal Consiglio Federale, può avere una sua logica per i molti Cantoni della Svizzera tedesca che sono stati solo sfiorati dalla pandemia. Come sta accadendo nei Paesi a noi confinanti sarebbe stato più saggio implementare questa seconda fase su scala regionale. 

Il Consiglio di Stato, sbagliando, non se l’è sentita di procedere con un nuovo strappo con l’autorità federale: avrebbe avuto solidi argomenti per farlo, sia dal contesto internazionale, sia per il fatto che la Confederazione ha stravolto la tabella di marcia. Il tema, quindi, a questo punto diventa come cercare di vincere questa scommessa al limite dell’impossibile.

Innanzitutto servirà un’enorme disciplina, nel tempo e non solo i primi giorni, da parte della popolazione ticinese e dei 70’000 frontalieri che torneranno a varcare il confine. Distanza sociale. Igiene personale. E mascherine obbligatorie nei luoghi chiusi. Su quest’ultimo punto c’è da augurarsi che il Governo cantonale faccia un passo in più rispetto alla Confederazione.

Questo è ciò che i cittadini devono impegnarsi a fare. Le autorità, però, dal canto loro devono essere in grado di garantire un sistema efficace basato sulle 3 T: testare, tracciare e trattare. Ovvero tamponi a manetta per individuare i nuovi casi. Capacità tempestiva di mettere in quarantena i positivi e i loro più stretti contatti, in modo da spegnere sul nascere i nuovi focolai. Monitorare e assistere tutte queste persone. Inutile aggiungere che occorre un esercito affinché tutto questo funzioni a dovere.

Infine, speriamo che il Generale Caldo, come affermano alcuni scienziati, si riveli il più grande alleato per frenare la diffusione del virus.

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