Il Governo ha ottimi argomenti per opporsi allo spericolato piano di uscita dal lockdown deciso dalla Confederazione. Agisca di conseguenza
di Andrea Leoni
Abbiamo capito che il Consiglio di Stato non è convinto del piano di riaperture generalizzate deciso dal Consiglio Federale l’11 maggio. Lo si è ben inteso dalle interviste rilasciate in questi giorni sia da Raffaele De Rosa che dal neo presidente Norman Gobbi.
Del resto tutto il mondo medico e scientifico ticinese, unito forse come mai dall’inizio di questa crisi, ha bocciato in coro la strategia bernese. A questo dato basta aggiungerci l’osservazione di ciò che accade fuori dai nostri confini: nessun Paese al mondo sta uscendo dal lockdown con le modalità decise dal Governo svizzero, ovvero con l’apertura in un unico giorno di scuole, negozi, bar e ristoranti e palestre, addirittura.
Ora, non è detto che questa anomala scommessa, quasi da roulette russa, si dimostri perdente. Tuttavia, considerato il corpo martoriato del nostro povero Cantone (3’245 contagi, 331 morti) i primi click sul grilletto è meglio cominciare a farli in altre regioni della Svizzera.
D’altra parte le aperture su scala regionale stanno avvenendo in diversi Paesi a noi vicini: in Germania, in Spagna e presto dovrebbe accadere anche in Francia e in l’Italia. È pienamente legittimo, in questa seconda fase, che alcuni Cantoni della svizzera tedesca, appena sfiorati dalla pandemia, abbiano la voglia e i requisiti per accelerare. Ma se ciò è giusto, dovrebbe valere anche il contrario. Ossia che non venga imposto ai Cantoni maggiormente colpiti la stessa tabella di marcia. In particolare per coloro che sono chiamati giornalmente ad ospitare decine di migliaia di lavoratori provenienti da oltre confine.
Abbiamo appena esposto due argomenti solidi, ma ve ne sono altri. Innanzitutto Berna ha stravolto la tabella di marcia che ci era stata inizialmente prospettata. Tre tappe, il 27 aprile, l’11 maggio e l’8 giugno. Quel piano poteva starci bene, quello nuovo, no.
Ancora: una riapertura generalizzata l’11 maggio, in caso di ripresa dei contagi, renderà pressoché impossibile stabilire la causa. Saranno stati i negozi? Le scuole? La ristorazione? A questo si somma il rischio che 70’000 frontalieri lombardi, potranno frequentare, o lavorare, in commerci e ristoranti, mentre sul loro territorio gli sarà impedito.
Per brevità ci fermiamo qui. Anche se si potrebbe proseguire con la lista dei buoni argomenti. Se il Consiglio di Stato non è d’accordo con la strategia della Confederazione, non basta sussurrarlo al mezzo stampa, mettendo le mani avanti. Lo dica forte e chiaro ed agisca di conseguenza. Del resto spetta al Governo cantonale, in prima battuta, la responsabilità della salute dei propri cittadini.
Si aprano pure i negozi l’11 maggio, si aspettino i canonici 14 giorni di monitoraggio per la ristorazione, magari con qualche piccola e progressiva concessione, e si rimandi l’apertura delle scuole a settembre (su quest’ultimo punto non serve neanche litigare con Berna, visto che la competenza è esclusivamente cantonale).
Non si può affrontare il virus rincorrendo i dati dei contagi e dei morti. Se qualcosa di prezioso ci ha insegnato questa dolorosa esperienza, è che a fare la differenza sono le misure preventive e non quelle reattive. Riavvolgiamo il nastro e torniamo all’inizio dell'emergenza. Allora, per paura di agire per eccesso di prudenza - 0 contagi e 0 morti - non si chiuse immediatamente il Rabadan. E dovettero passare molti giorni prima di ordinare la serrata di ristorazione, scuole, negozi, palestre, cinema e i teatri. La stiamo pagando a caro prezzo ancora oggi.
Il Governo dimostri di aver imparato la lezione, ascolti gli specialisti ticinesi e scelga la difficile, impopolare e coraggiosa linea della prudenza.