Riflessioni a ruota libera nell'anniversario della strage compiuta da Hamas contro i civili israeliani. E su tutto quel che ne è seguito
di Andrea Leoni
Un anno dopo il 7 ottobre è più che mai necessario chiamare le cose per nome. Ma ancora più urgente è il bisogno di approfondire e di ascoltare le ragioni degli uni e degli altri. Quanta approssimazione, quanta propaganda, quante mezze verità, quanti pregiudizi e preconcetti da tifoseria gravano su questa matassa inestricabile che gronda sangue da 70 anni.
Il massacro compiuto da Hamas un anno fa, attiene alla sfera dell’orrore che non si può descrivere, all’indicibile. Sono andati casa per casa, a una festa di ragazzi, e hanno ucciso, picchiato, stuprato, mutilato, rapito cittadini inermi: uomini, donne, vecchi e bambini. Lo hanno fatto con l’efferatezza e il ghigno dei nazisti. Dodici mesi dopo sono un centinaio gli ostaggi prigionieri nei tunnel di Gaza. Non si sa quanti siano ancora vivi. Alcuni di loro sono stati giustiziati a sangue freddo con un colpo alla testa, solo perché l’esercito israeliano stava per scovarli.
Alcuni tra i capi di Hamas, accovacciati sui sofà dorati di Doha, hanno affermato con un cinismo raggelante, che le migliaia di morti palestinesi trucidati dalla rappresaglia d’Israele, sono da intendersi come un prezzo benedetto, utile alla causa. Perché così han deciso loro. Ma chi siete per disporre così della vita di un popolo, Dio?
E a fronte di tutto ciò nelle piazze e nelle università occidentali, tra proteste oneste e sacrosante, si berciano cori e si stampano volantini in cui a parole nobili come “resistenti” o “rivoluzionari” o “partigiani”, si affianca questa banda di fascisti assassini. Lascia sgomenti oggi leggere sui profili social del partito socialista ticinese che la barbarie del 7 ottobre venga ricordata con la bandiera della Palestina come “un escalation di violenze nel conflitto palestinese”. Senza un accenno a 1’200 morti israeliani. Senza neppure citare Hamas. Senza un sola parola per la liberazione degli ostaggi.
L’azione militare di Israele su Gaza è stata una macelleria, la cui violenza indiscriminata si spiega solo con l’odio e la sete di vendetta che non dovrebbero mai appartenere a una democrazia e a uno Stato di diritto. L’esercito israeliano, è vero, si è trovato a combattere un nemico talmente annidato nella Striscia (anche per responsabilità d’Israele) da mescolarsi irrimediabilmente ad ogni contesto, sopra e sotto il suolo. Ma ciò non può in alcun modo giustificare i crimini di guerra che sono stati compiuti a danno della popolazione civile, in larga parte bambini. La differenza tra un criminale di guerra e chi non lo è, tra un Governo legittimo e un gruppo terrorista, sta proprio nella ferrea volontà di non volersi assomigliare, di rifiutarsi di scendere a patti sui valori fondamentali. Invece il Governo israeliano è guidato da una leader aggrappato al potere per ragioni di sopravvivenza politica, seduto accanto a fanatici religiosi, sacerdoti incendiari dell’odio verso il popolo palestinese e sostenitori a parole e con le armi della vergogna impunita dei coloni.
Pensiamo anche a Libano. Hezbollah, dal giorno dall’inizio della guerra a Gaza, ha sparato quotidianamente missili sul nord di Israele, costringendo decine di migliaia di cittadini ad abbandonare le proprie case. Da tre settimane la popolazione di Beirut e non solo si trova sotto le bombe di Tshal. Per uccidere Hassan Nasrallah ne sono state sganciate 80, su un quartiere densamente popoloso, in cui il leader terrorista vigliaccamente si nascondeva e organizzava i suoi summit militari. Ma quanti morti civili valeva la vita del capo di Hezbollah? In pochi in Occidente si sono fatto questa domanda che invece echeggia potente fuori dai nostri confini.
Azioni di guerra come quelle compiute a Gaza e in Libano, disintegrano la superiorità morale di cui l’Occidente di vanta, sventolando i suoi valori giudaici, cristiani, romani, greci, illuministi. Come possiamo puntare il dito verso Putin o altri autocrati, se applichiamo un doppiopesismo etico così sfacciato nell’osservare il Mondo?
E poi c’è l’Iran, grande burattinaio impegnato in una battaglia di leadership geopolitica regionale in contrapposizione agli Stati sunniti e nella lotta per la sopravvivenza della teocrazia che dal 1979 governa il Paese. L’Iran, alleato di ferro di Putin, che a questo scopo utilizza territori e civili di altri Paesi - la Palestina, lo Yemen, il Libano, la Siria - per condurre la sua guerra a Israele. Abbiamo visto l’ayatollah Khamenei arringare la folla con il fucile a difesa del martoriato popolo palestinese. Lui, l’assassino morale di Masha Amini, e di tutte quelle donne iraniane per cui le sorelle occidentali, non molto tempo fa, si tagliavano una ciocca di capelli in segno di solidarietà. Come sarebbe bello, e come sarebbe giusto, se nei cortei in cui si manifesta per chiedere il cessate il fuoco a Gaza, si citasse anche Khamenei o Yaya Sinwar con l’appellativo di assassino.
Nel doveroso ricordo del 7 ottobre, dovremmo anche sbaragliare il campo da un’altra ipocrisia. La soluzione a due Stati, ripetuta come un mantra da politici e media in ogni parte del globo - compresi i Paesi arabi che hanno sempre utilizzato i palestinesi come carne da macello per i loro progetti geopolitici - è oggi un’idea sbriciolata, l’ammasso di macerie più evidente di questa guerra. Per avere uno Stato serve innanzitutto un territorio e quello palestinese è sempre più ristretto, pensando anche a quel che accade in Cisgiordania. Questa ipotesi è un’arma di distrazione di massa dalla realtà.
Non faremmo onore ai morti del 7 ottobre, infine, se assecondassimo il falso storico secondo il quale tutto ha avuto inizio quel giorno. Quella tragica mattina ha radici che affondano in profondità nella storia insanguinata del Medioriente. Negarlo significa creare i migliori presupposti perché accada di nuovo.