IL FEDERALISTA
Ricordando l'Olocausto
Una riflessione di Claudio Mésoniat sulla temuta rinascita del mostro antisemita in relazione agli eventi in corso all'Aja e a Gaza

di Claudio Mésoniat - contributo de ilfederalista.ch

Venerdì 26 gennaio, la Corte Giudiziaria dell’Aja chiamata a giudicare su richiesta del Sudafrica se l’operazione intrapresa da Israele a Gaza dopo la strage del 7 ottobre presenti i caratteri di un genocidio, doveva esprimersi non già sul merito dell’accusa bensì su eventuali misure immediate da imporre, in particolare a Israele, onde evitare qualsiasi atto genocidario a Gaza.

Il Tribunale delle Nazioni Unite non ha chiesto a Israele di fermare la sua campagna militare, ma di adottare misure urgenti che evitino, appunto, l’avverarsi di un genocidio e consentano ai servizi di base e agli aiuti umanitari di raggiungere i civili della Striscia, aggiungendo che Il Governo di Tel Aviv è tenuto a punire l'incitamento pubblico al genocidio, anche da parte di funzionari governativi e militari. D’altra parte i giudici dell’Aja hanno chiesto l’immediata liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas.

Quasi paradossalmente, in coincidenza con questi avvenimenti e proprio in questi giorni, si è celebrato nel mondo la Giornata della Memoria dedicata all’Olocausto, ovvero al genocidio subito dal popolo ebraico durante l’ultima Guerra Mondiale.

Difficile non domandarsi se e come ciò che sta accadendo in Palestina, oltre a seminare lutti e odio tra ebrei e palestinesi, stia in qualche modo risvegliando quell’antisemitismo che scatenò gli spiriti genocidari del nazismo. Tentiamo una riflessione. 
 
L'originario progetto dei due Stati

Noi occidentali, atterriti dall’Olocausto che una delle ideologie fiorite in Europa aveva potuto ideare e mettere in atto, al termine della Seconda Guerra Mondiale abbiamo condiviso e appoggiato la proposta di costituire in Palestina uno Stato nel quale il popolo ebraico potesse vivere pacificamente, al riparo da ogni forma di rigurgito antisemita.

Tuttavia, com’è noto, la parallela costituzione di uno Stato contiguo a Israele che potesse fungere da casa per il popolo palestinese, così come stabilito dalle Nazioni Unite, fu da subito combattuta sia dai leader palestinesi sia dagli Stati arabi della regione i quali, senza proporre alternative che non fossero una “Palestina dal fiume al mare” previa eliminazione di Israele, fecero dei palestinesi un popolo di rifugiati perpetui, utile spina nel fianco di Israele e dell’Occidente stesso.

Se questi, a grandi linee, sono i fatti, una prima impressione è che la classe politica israeliana, specie quando influenzata –com’è oggi il Governo in carica- dall’ideologia del cosiddetto “sionismo messianico” (quello dei coloni fautori violenti del dominio assoluto di Israele sull’intera Palestina), abbia contribuito gravemente a sabotare ogni sforzo di composizione del conflitto messo in atto della Comunità internazionale come pure, e soprattutto, da arabi ed ebrei di Palestina capaci di reciproca stima e di dialogo (si vedano esempi qui).

Con l’aggiunta di una responsabilità occidentale nel cauzionare, sovente in modo acritico, i Governi più impresentabili di Tel Aviv: gli statunitensi mossi da disegni geopolitici non sempre limpidi; gli europei, in ordine sparso, lavandosi però la coscienza con pacchi di euro depositati sui conti delle organizzazioni palestinesi, non sempre estranee alla violenza.

Una seconda impressione è che, soprattutto dagli anni sessanta (sulla scia ad esempio delle teorie neo marxiste di Frantz Fanon), una buona parte delle élite intellettuali occidentali abbia mitizzato ideologicamente la “causa palestinese”, facendone un perfetto avatar delle vittime del neo colonialismo europeo e americano, vittime a priori innocenti i cui paladini sono autorizzati all’uso di qualsiasi arma, terrorismo compreso. L’eredità di quella che fu la “sinistra con la kefiah” è in qualche modo trapassata nei luoghi comuni che oggi alimentano la cultura dominante che si vuole “progressista” (e che qualcuno identifica al woke)

Se è comunque impossibile oggi non empatizzare con la popolazione di Gaza di cui i media ci mostrano quotidianamente il Calvario, l’insidia è di dimenticare contestualmente fattori altrettanto decisivi della tragedia che abbiamo sotto gli occhi,

Da una parte, che la genesi del conflitto in corso è il massacro compiuto il 7 ottobre da Hamas che, scatenata la violenta e sproporzionata reazione militare di Israele, si è poi rintanata nei suoi tunnel lasciando esposto al "genocidio" il popolo per la cui liberazione asserisce di combattere (anzi, Hamas posiziona con viltà le sue armi, le sue rampe di lancio e le sue munizioni in scuole, asili e ospedali); dall’altra che non può essere imputato al popolo di Israele come tale quanto i suoi attuali - e sempre più contestati - dirigenti politici stanno compiendo a Gaza.
 
La rinascita del Mostro

Poniamoci ora la domanda: quanto questi errori di prospettiva, ma anche gli errori di Israele sotto la guida di Netanyahu, possono contribuire a riesumare e alimentare, alla lunga, quello che chiamiamo “antisemitismo” nelle nostre società occidentali?

La chance di vivere in Ticino, dove gli atti di antisemitismo vanno obbiettivamente cercati, come si dice, “col lanternino”, ci indurrebbe a evitare gli allarmi d’obbligo. Ma già nel resto del Paese e, soprattutto, in Europa e negli Stati Uniti, le cose non stanno così.

Prendiamo come esempio la testimonianza di un intellettuale francese di primo piano, ebreo lui stesso, che ha subito in passato e continua a sperimentare sulla propria pelle espressioni di odio razziale: Alain Finkielkraut, filosofo e docente universitario di Storia delle idee, membro dell’Académie Française.

Intervistato qualche giorno dalla “Neue Zürcher Zeitung” Finkielkraut ha denunciato come, dopo il massacro del 7 ottobre, l'antisemitismo sia divenuto “lo stadio ultimo del woke”.

Il woke riduce senza pietà la complessità delle costellazioni umane al confronto tra governanti e governati, oppressori e oppressi. Questa ideologia colloca Israele nel campo degli oppressori. Arriva a delegittimare completamente lo Stato. I collettivi studenteschi americani descrivono Israele dalle sue origini a oggi come un'impresa coloniale. Viene negato il diritto degli ebrei a questa terra. Si pretende che si siano stabiliti lì, in Palestina, come i tedeschi in Namibia o i francesi in Algeria. Da qui il fiorire dello slogan "Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera".

Più avanti, il filosofo francese, definito il woke come “una visione sospettosa e accusatoria di tutta la nostra eredità. Il passatempo preferito del woke è giudicare, sotto forma di tribunale, il passato razzista, sessista, omofobo e così via”, aggiunge con toni drammatici:

È stato doloroso per me vedere come gli studenti americani strappino, con calma e disinvoltura, le foto degli ostaggi israeliani. Ai loro occhi, questi ostaggi sono coloni e i coloni non meritano di vivere. Ciò è spaventoso, perché questa ideologia sta plasmando le élite o le future élite. Il Woke è l'instaurazione dell'odio verso l'Occidente nel cuore dell'Occidente. E in questa prospettiva, Israele è il punto in cui tutti i crimini, tutti gli oltraggi, tutte le atrocità dell'Occidente si concentrano.

Se in qualche modo di antisemitismo si può parlare, dunque, non si tratta certamente di quello storico, nazista, che oggi sopravvive a se stesso manifestandosi (anche in Svizzera) in forme associative residuali e del tutto marginali.

Può stupire infine un’annotazione di Finkielkraut relativa al nesso tra il nuovo antisemitismo e il mondo musulmano (“La France insoumise orienta le sue posizioni su quelle di Hamas, per cercare di appellarsi all'elettorato musulmano. Una grande maggioranza di musulmani ha votato per Jean-Luc Mélenchon alle ultime elezioni presidenziali”).

A nessuno può sfuggire che nei Paesi musulmani, arabi in particolare, la solidarietà con i “fratelli palestinesi” spinge a manifestazioni fortemente anti israeliane. Lo stesso accade nei Paesi occidentali segnati da una forte immigrazione musulmana. Il tema apre tuttavia a considerazioni storiche e richiede un approfondimento sul rapporto tra le religioni abramitiche (ebraismo, islam e cristianesimo) sul quale ci ripromettiamo di tornare quanto prima.

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