L'analisi del Federalista. Il tema è all’ordine del giorno nell’ambito di una più ampia revisione della Legge svizzera sulla CO2 in agenda nella sessione delle Camere federali apertasi a Berna
di Beniamino Sani - Il Federalista
Sull’auto elettrica in Europa si è reduci da una generale ubriacatura, dalla quale ci sta ora risvegliando? Alcuni dati e avvenimenti recenti sembrano suggerirlo, anche se più che di eccesso di alcol si dovrebbe correttamente parlare di miraggio, con relativa ottimistica fuga in avanti, che ora la realtà si sta incaricando di frenare.
Un chiaro segnale in questo senso è arrivato negli ultimi giorni dalla Commissione UE. Vedremo tra poco di cosa si tratta, ma è necessario sottolineare che quanto avviene nel mercato automobilistico europeo si riflette immediatamente su quello svizzero. Pensiamo, per esempio, ai limiti posti alle emissioni dei nuovi autoveicoli, gradualmente ridotti dai Paesi UE nel corso degli ultimi decenni e che la Svizzera ha ripreso sostanzialmente invariati dall’Europa.
Il tema è all’ordine del giorno nell’ambito di una più ampia revisione della Legge svizzera sulla CO2 in agenda nella sessione delle Camere federali apertasi a Berna. E anche di questo parleremo tra poco. La nostra dipendenza dal mercato dell’auto europeo è totale per evidenti ragioni di numeri (siamo una minuscola dépendance di un mercato gigantesco), anche perché non vi sono marchi elvetici dell’automobile. E proprio dai giganti europei dell’Automotive giungono segnali di disagio che provocano a loro volta brividi di dubbio tra i leader politici continentali.
La grande scommessa sull’elettrico non convince i brand europei
Il mondo dell’Automotive è in costante fermento ormai da anni. Le aziende stanno cercando di capire come orientarsi. In particolare quelle europee, sempre meno convinte di puntare all in sulla tecnologia dei veicoli a batteria (indicati con le sigle EV o BEV). Come noto, fare all in nel gioco del poker indica l’azzardo di puntare tutto in un sol colpo: una mossa che, giocata al momento giusto, può far vincere la partita ma che, se giocata al momento sbagliato, qualora l’avversario abbia in mano carte migliori, porta a sonore sconfitte.
Le grandi case automobilistiche europee si stanno proprio chiedendo se il “momento giusto” non sia in realtà ancora distante. Un rallentamento nelle vendite degli EV in Europa e in Nord America ha infatti convinto molti operatori che una certa stagione di esuberanza iniziale, dovuta alla novità tecnologica, sia passata. Scrive il Financial Times: “Il rallentamento della crescita delle vendite di veicoli elettrici ha causato una serie di inversioni di marcia a livello aziendale. E se le brusche sterzate non sono mai divertenti, il cambio di direzione è sensato”.
La testata economica enumera i grandi marchi del settore che stanno riducendo gli investimenti nell’elettrico. Volvo ad esempio chiude il ramo elettrico Polestar, mentre Renault e Volkswagen rimandano lo sbarco in borsa di alcuni loro sottomarchi elettrici.
Difficoltà per i gruppi europei (ma non solo) permangono nel generare margini dalla vendita di veicoli a batteria. Tra gli esempi più recenti c’è quello di Mercedes, che si è dichiarata scettica sulla possibilità di giungere a una parità di costi di produzione con veicoli endotermici in pochi anni; ciò significa che se non saranno i consumatori a sborsare di più per acquistare la loro automobile elettrica, saranno i produttori a dover lavorare per anni ancora senza ritorno sugli investimenti. O addirittura in perdita.
Un passo indietro lo ha annunciato anche l’ammiraglia dell’autonoleggio Hertz, secondo la quale le elettriche costano “tanto” e si rivendono a “troppo poco”. Ricordiamo infatti che queste compagnie tendono a rinnovare le loro flotte ogni sei mesi e hanno dunque bisogno di recuperare buona parte del loro investimento sul mercato delle auto di seconda mano, mentre le BEV tendono a svalutarsi troppo in fretta. La compagnia ha dunque rimandato gli ambiziosi piani di una flotta al 100% elettrica attraverso l’acquisto progressivo di 100mila veicoli Tesla.
La sfida dei materiali e quella della corrente
Le compagnie europee sono dunque attendiste. Guardano con una certa inquietudine alla Cina, in grado di sfornare veicoli elettrici a costi inferiori. Di mezzo ci sono due tipi di dumping: quello sui diritti dei lavoratori e quello ambientale. Un terzo aspetto da considerare è il fatto che tutta la filiera delle pile elettriche (che rappresenta la parte più importante dell’investimento produttivo nei veicoli BEV) è affare praticamente esclusivo dello stesso Dragone rosso, dal controllo delle miniere in Africa e Sudamerica, al raffinamento dei materiali, ai componenti delle pile, alle batterie stesse.
Scommettere tutto sulle auto a batteria in questo momento significa consegnare nelle mani dei cinesi un’industria che finora rappresentava il fiore all’occhiello e l’orgoglio degli europei. L’Automotive per l’appunto.
Il secondo cruccio che affligge il Continente europeo, tradizionalmente povero di fonti energetiche, è quello di produrre l’immensa quantità di corrente necessaria a muovere, in un futuro, il 100% di un parco di vetture a mozione elettrica, quando gli anni recenti sono stati alquanto problematici proprio nell’approvvigionamento dei preziosi elettroni.
Torniamo dunque a Bruxelles. L’UE aveva fissato uno “stop” alla vendita di nuove vetture con motore termico, a benzina o diesel, entro il 2025. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha però affermato un paio di giorni fa che “les jeux ne sont pas faits”. Anzi, la Commissione -ha detto la von der Leyen- si riserva di ribaltare tutto nel 2026. Insomma, considerato il contesto sopra descritto, il vertice UE comunica che lo “stop” alle endotermiche non è più irrevocabile.
A preoccupare la leader della burocrazia europea c’è… l’osservazione della realtà, in particolare dello stato dell’arte delle grandi case europee, nonché il fondato timore che in Europa la transizione verso l’auto elettrica non giunga a compimento nei tempi previsti, ciò che offrirebbe un vantaggio, come detto, alla Cina. La stessa von der Leyen ha già minacciato di imporre dazi sulle importazioni dal mercato cinese: “L’Europa è aperta alla concorrenza. Non a una corsa al ribasso”, ha soggiunto la presidente, riferendosi proprio alla natura tutt’altro che green e sostenibile dell’auto cinese.
Le case automobilistiche europee hanno inoltre chiesto di assumere un atteggiamento di maggiore “neutralità tecnologica” verso gli sviluppi dei cosiddetti “carburanti sintetici rinnovabili” (quelli ottenuti attraverso trasformazioni chimiche) e dei biocombustibili (prodotti a partire da materia organica). A queste tecnologie credono in particolare i costruttori tedeschi e quelli italiani; anche se per ora tali alternative a basse emissioni condividono con le batterie il problema degli alti costi.
Se i senatori frenano gli ardori dei deputati
Come detto anche a Berna nel corso di questa sessione parlamentare, il tema farà capolino nell’ambito della revisione della cosiddetta Legge CO2, revisione che intende fissare gli obiettivi di riduzione delle emissioni e i mezzi per raggiungere tali traguardi entro i prossimi anni (dal 2025 al 2030).
Si discuterà anche di automobili. La camera dei Cantoni dovrebbe assumere, sul capitolo “transizione all’elettrico”, una posizione più prudente rispetto a quella del Consiglio Nazionale.
La Camera bassa infatti, sulla scia di quanto proposto dal Consiglio federale (responsabile del dossier Albert Rösti), vorrebbe incoraggiare, anche tramite sussidi, l'installazione di punti di ricarica per veicoli elettrici negli edifici, nelle aziende e nei parcheggi pubblici; ma la Commissione degli Stati, a larga maggioranza, proporrà ai senatori di votare contro la proposta, rilevando che è consigliabile non forzare la mano del libero mercato su questo aspetto. Non spetterebbe insomma alla Confederazione occuparsene, anche perché di sussidi in questo campo ne elargiscono già molti Cantoni.
Vi è infine il capitolo “emissioni”. La Svizzera, dicevamo, riprende presto o tardi i limiti europei. Non avendo case produttrici, il nostro Paese impone tali paletti ai grandi importatori. In che modo? Indicando un valore medio al quale le auto importate da ogni agente debbono sottostare. Al momento, tale valore è fissato a 118 grammi di C02 consumati per chilometro. Ne consegue che importare e vendere veicoli elettrici permette di ridurre il valore medio.
Ora, il Consiglio nazionale, questa volta distanziandosi dal parere del consigliere federale Rösti, ha proposto di ridurre, a partire dal 2030, le emissioni medie delle nuove autovetture al 25% del valore attuale, laddove l’UE ha puntato (e il Consiglio federale a rimorchio) su un obiettivo meno esigente: il 45% di emissioni rispetto alle attuali. Si è calcolato che il valore desiderato dal Consiglio nazionale richiederebbe che fra sei anni in Svizzera si vendano quasi solo veicoli a batteria, quando il target europeo è già di per sé molto ambizioso: secondo i costruttori continentali esso richiederebbe che un buon 60% delle nuove immatricolazioni riguardi vetture a emissioni (quasi) zero.
Gli Stati dovrebbero però, anche qui, bloccare la fuga in avanti dei colleghi deputati, segnalando la necessità di un ripensamento sulle conseguenze degli indirizzi che si stanno dando a un’industria da cui dipendono, ricordiamolo, moltissimi posti di lavoro anche in Svizzera, data la galassia di imprese elvetiche di ogni dimensione che sono inserite nella filiera del motore europeo.