IL FEDERALISTA
Perché questa guerra ci divide tanto?
"Il conflitto Israele-Hamas spacca le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali, quasi esigendo schieramenti automatici e stagni, sordi al dialogo e alla verifica dei fatti, nello stile delle tifoserie calcistiche"

di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato su ilfederalista.ch

Perché la guerra tra Israele e Hamas suscita, a sua volta, una guerra di parole altrettanto accanita da (quasi) oscurare tutte le altre che imperversano nel mondo, a partire da quella russo-ucraina?

Una guerra politica e culturale che non solo allarga il divario geopolitico tra “Occidente collettivo” e “Sud globale”, ma che sembra spaccare a metà le opinioni pubbliche all’interno degli stessi Paesi occidentali, quasi esigendo schieramenti automatici e stagni, sordi al dialogo e soprattutto alla verifica dei fatti, nello stile delle tifoserie calcistiche.

La risposta a quest’ultimo aspetto è ora troppo difficile, in quanto necessita probabilmente anche uno scavo nei sottofondi della coscienza collettiva, europea innanzitutto, là dove si tocca il nodo delle responsabilità dell’Olocausto e si avverte quasi il bisogno di liberarsi da cicatrici ancora doloranti, di cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è l’emblema più vistoso.

Con l’aggravante di una sorta di ricatto che ha da sempre consentito alle leadership israeliane di coprire –ora più, ora meno- la spregiudicatezza colonizzatrice dei vari messianismi politici ebraici. È senz’altro, quest’ultima, un fattore di ingiustizia che ha incentivato nel tempo una tendenza antipatizzante verso lo Stato ebraico e una simmetrica simpatia suscitata in Occidente dalla sorte del popolo palestinese.

Non entriamo qui neppure nello sviluppo, durante gli ultimi anni, di una singolare corrente politico-culturale ribattezzata in Francia islamogauchisme. Ovvero la sovrapposizione complessa di una tendenza filo islamista sugli ideologumeni di un certo progressismo politico (un prodotto classicamente woke, di cui si è occupato di recente Pietro Ortelli nei suoi contributi al magazine del Federalista). È forse questa la corrente, se non dominante, per lo meno radicalizzante le proteste iper mediatizzate nei campus universitari di molti Paesi occidentali.

Diversa la prospettiva se guardiamo al tema nell’ottica del mondo arabo-islamico, che peraltro non fu del tutto estraneo alla persecuzione degli ebrei (si veda il sempre sorvolato patto di ferro tra Hitler e il Muftì di Gerusalemme Haji al-Husayn). Qui Israele viene vissuto sin da subito come corpo estraneo, appendice di un Occidente che ha scaricato le proprie responsabilità su terre e popoli estranei. La storia tuttavia ci dice che le cose in realtà non stanno così: il “sogno sionista”, che precede di gran lunga la Shoà, ha fatto leva su una presenza secolare di comunità ebraiche in quei territori.

E d’altra parte la “causa palestinese”, sorta dal rifiuto degli Stati arabi di accettare le decisioni delle Nazioni Unite che istituivano la doppia statualità in Palestina, divenne poi la foglia di fico dietro la quale regimi di stampo monarchico o dittatoriale coprivano le loro magagne e inadempienze fomentando nelle loro popolazioni un odio di stampo palesemente razziale e religioso contro quel “corpo estraneo”, Israele, che ostentava per giunta la propria (pericolosa) natura democratica.

Lasciando del tutto aperta la domanda da cui abbiamo preso le mosse, diamo un veloce sguardo agli avvenimenti degli ultimi giorni che hanno per così dire messo in campo una “terza parte”, di natura arbitrale, nel confronto tra Israele e Hamas.

Una “terza parte”, una sorta di terzo potere di tipo giudiziario, che ha fatto irruzione nell’attualità con due diversi attori della giustizia internazionale e con due diverse sentenze.

La prima, rumorosissima –e volutamente-, è stata emessa tre giorni fa dalla Corte Penale Internazionale (CPI), non legata all’ONU, sebbene ubicata anch’essa all’Aia come l’onusiana Corte Internazionale di Giustizia (CIG), di cui diremo). La CPI fu creata nel 2002 da 124 Stati, tra i quali non figurano Cina, USA, Russia e Israele.

È la sentenza (per la precisione atto d’accusa con richiesta di arresti, in attesa di conferma da parte dei Giudici) annunciata dal Procuratore capo della CPI Karim Khan alla CNN prima ancora di essere ufficialmente emessa e riguarda, come da statuto della CPI stessa, le persone, ovvero i leader politici di Israele e Hamas, tutti accusati di crimini di guerra e contro l’umanità. I primi, come avrete letto, per aver deliberatamente affamato la popolazione di Gaza e aver provocato intenzionalmente uno sterminio di civili, i secondi per aver attuato sia uno sterminio di civili, sia stupri di massa e altri crimini sessuali, sia prese di ostaggi.

L’uscita del Procuratore Khan, che ha messo chiaramente sullo stesso piano uno Stato democratico (che può cionondimeno deragliare e commettere crimini) e un movimento terrorista (che li commette per il suo stesso statuto), ha scatenato applausi e indignazione, com’era da attendersi, anche se c’è chi ha scritto (Haaretz) che “non è chiaro come la bomba sganciata all’Aja inciderà sulle bombe che continuano a cadere su Gaza”.

Quanto alla terzietà del discusso Khan, va ricordato che da avvocato ha costruito la sua carriera difendendo una serie di dittatori sanguinari, tra i quali il keniota William Ruto, cui Khan evitò 50 anni di prigione per crimini di guerra e stupri di massa. Ebbene, scrive il CorSera, Khan è salito ai vertici della CPI vincendo “lo scrutinio segreto al secondo turno, battendo rivali di Irlanda, Italia e Spagna, fino a quel momento considerati più solidi di lui, grazie all’appoggio di Ruto e di molti altri Paesi Africani”. Appoggiato, insomma dal “Sud globale”.

Ultimo episodio ha avuto come attrice la Corte di Giustizia Internazionale (creata dall’ONU nel 1945), la quale si è nuovamente pronunciata sull’istanza presentata dal Sud Africa che chiede a Israele di interrompere “immediatamente” la sua offensiva militare e “ogni altra azione” a Rafah.

Questo secondo schiaffo a Netanyahu, seppur sferrato da un organismo delle Nazioni Unite e propiziato da uno Stato arrembante del “Sud globale”, ci sembra appropriato e difficilmente contestabile, stante la pervicacia dell’attuale Governo israeliano nel condurre un’operazione di cieca vendetta senza pietà per la popolazione civile di Gaza (peraltro esposta a tale martirio dagli stessi capi di Hamas, che ne hanno fatto uno scudo umano a loro protezione).

Resta da vedere, anche qui, quale efficacia pratica potrà avere la sentenza, essendo la CGI e cioè l’ONU stessa priva di forza militare di dissuasione, ma soprattutto godendo Tel Aviv dell’appoggio, sia pure condizionato, della prima potenza mondiale, gli Stati Uniti.

La partita rimane aperta, le tifoserie schierate. Come uscire da questa logica? Ne riparleremo presto.

 


 

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