È come se la principale Città del Cantone fosse diventata un laboratorio politico alla rovescia, dove si sperimenta all’incontrario
di Andrea Leoni
Non c’è logica e neppure senso. Mancano i criteri minimi, la grammatica più elementare, persino quel galateo che si assimila per eredità e non per comprensione.
Nella politica luganese regna il caos e, ciò che è peggio, il caos sembra l’unico carburante che alimenta la macchina e la traiettoria sghemba di alcuni piloti. Impossibile orientarsi, comprendere le dinamiche, ipotizzare gli scenari. È saltato il tappo, a Lugano.
È come se la principale Città del Cantone fosse diventata un laboratorio politico alla rovescia, dove si sperimenta all’incontrario. Si fa quel che non si dovrebbe mai fare. Si smonta al posto che costruire. Si gioca a perdere anziché a vincere. Si anticipano le rese dei conti, prima del giudizio degli elettori. Robe da matti!
A memoria di cronista non ricordiamo, alla vigilia di elezioni, un quadro tanto confuso e pasticciato. E vi è da chiedersi seriamente se quanto sta accadendo in riva al Ceresio, non sia davvero il fluido di una provetta impazzita che potrebbe presto contagiare i partiti sul piano cantonale.
E dire che le premesse erano tutt’altre. Lugano sta per chiudere un quadriennio difficile, pantanoso, dove l’azione politica ha fatto fatica a correre, a trovare concretezza e sbocchi realizzativi. La Città è stata spesso avvolta in una cappa depressiva, smarrendo la sua naturale vocazione alla progettualità, al dinamismo, al coraggio di cavalcare il futuro e non di subirlo. Una melanconia figlia non soltanto delle responsabilità politiche ma anche della mutazione delle condizioni quadro generali, dal ridimensionamento della piazza finanziaria e dai conseguenti cambiamenti economici, simboleggiati dalle troppe vetrine spoglie. Vi sono tre elementi che sintetizzano il discorso: 1. La continua perdita di abitanti; 2. Le difficoltà a realizzare i grandi progetti; 3. La crisi dell’aeroporto.
Con questi chiari di luna avrebbe dovuto essere la Lega a temere di più il banco di prova elettorale. E in effetti questo era l’umore fino a pochi mesi fa: in via Monte Boglia si respirava una certa preoccupazione per il terzo seggio in Municipio, soprattutto dopo le gravi difficoltà riscontrate sia alle Cantonali che alle Federali. Non solo: anche la poltrona di sindaco di Marco Borradori poteva essere attaccata.
Ma la Lega ha reagito con logica alle sconfitte elettorali, sostenendo con forza Marco Chiesa agli Stati - quindi cementando l’alleanza con l’UDC anche in chiave comunale - e portando l’opposizione interna alla co-conduzione del Movimento. Al resto hanno pensato gli altri, PLR in testa, che invece che presentarsi tirato a lucido ai nastri di partenza, è imploso sulle sue contraddizioni, sulle faide non risolte, su scelte cervellotiche e su personalismi avvelenati.
Il PPD non è stato da meno, in questa assurda rincorsa a chi la combinava più grossa. Un presidente che lascia prima delle elezioni perché non gli piace la lista per il Municipio: una prima assoluta. Un’assemblea che sconfessa l’Ufficio presidenziale, riabilitando una Gran Consigliera da poco trasferitasi a Lugano, Nadia Ghsiolfi, ma escludendo al contempo una Consigliera Comunale uscente, Sara Beretta Piccoli, luganese doc che porta in dote un bel bottino di voti. Consigliera Comunale che ora potrebbe candidarsi per una lista avversaria. Il tutto con disputa polemica tra le due protagoniste, circa la luganesità di Ghisolfi. A mettercisi d’impegno sarebbe stato difficile realizzare un pasticcio di altrettanta fattura.
Un tempo il tafazismo era prerogativa della sinistra. E in effetti anche il PS non si è risparmiato il battibecco sulla lista, che ha portato all’esclusione della capogruppo Simona Buri, rinunciando in questo modo a una squadra di battaglia proprio nella tornata in cui il raddoppio nell’Esecutivo è possibile. Ma se confrontata ai partiti di centro, la sinistra luganese sembra guidata da illuminati statisti per strategia e pragmatismo, avendo confermato l’alleanza con i Verdi e silenziato al minimo le polemiche interne. Verdi che, come i leghisti, sono quelli che si stanno muovendo meglio, facendo pesare fino all’ultimo grammo il proprio ruolo e tenendo le carte coperte sui candidati, lasciandosi aperte opzioni last minute.
Ma torniamo al caos dei partiti di centro. Se, come detto, è impossibile leggere il presente e profetizzare il futuro, forse si può ipotizzare qualche causa all’origine della baraonda.
La prima che sovviene è che quanto sta accadendo sono i danni collaterali provocati dall’onda lunga della sconfitta alle elezioni dello scorso ottobre. Ma questo è accidentale: significa che gli argini erano già fragili. Nel PLR di Lugano, la più grande sezione del Cantone, l’origine del dissesto coincide con l’uscita di scena di Giovanna Masoni e s’innesca con la tumultuosa cacciata di Giovanna Viscardi dalla presidenza sezionale, promossa da Michele Bertini e da Karin Valenzano Rossi (poi lasciati soli dagli altri autori del “golpe”). Di qui la scelta di puntare su un neofita, Guido Tognola, benedetto da Masoni e mai digerito dai bertiniani e dalla destra del partito. E poi tutto, proprio tutto, è tornato al pettine in queste settimane.
Ciò che emerge in generale dalla vita politica è l’assoluta incapacità di anteporre il bene del gruppo alle ambizioni dei singoli. Le idee e l’azione politica, al successo e al beneficio personale. La sconfitta - qualunque sconfitta, non solo quelle elettorali - non è più un naturale, e quasi necessario, passaggio della carriera di un politico, ma un punto che porta all’abbandono. Le carriere sono fulminanti e scandite da un’insaziabile impazienza. Manca disciplina nel saper stare al proprio posto e leader in grado di esercitarla, perché i ruoli di partito sono sempre meno sexy e spesso ci approdano le seconde o terze linee. Scarso esercizio a deglutire le amarezze. C’è poca scuola a supporto del talento e zero gavetta, o quasi, ad allenarlo. Così storie potenzialmente importanti si bruciano in un amen. E allora avanti il prossimo, fino al prossimo cambio.