La segnalazione di Francesco Lepori, il chiacchiericcio velenoso e i rapporti tra stampa e politica
di Andrea Leoni
Dev'essere che a furia di occuparsi dei metodi in salsa bielorussa con il quale il Consiglio della Magistratura ha gestito il dossier sulle nomine al Ministero Pubblico, la Commissione Giustizia e diritti del Gran Consiglio s’è fatta infatuare dal modello Lukashenko. Solo così - ad essere generosi - si spiega la colossale stupidaggine di segnalare agli organismi preposti della CORSI il collega Francesco Lepori. Una sciocchezza nella forma, nella sostanza e nella tempistica (a Natale!), quasi proprio a voler emulare la serie di strafalcioni sesquipedali messi in atto dall’organo di vigilanza sulla giustizia negli scorsi mesi.
Ora, tutto si può dire di Francesco, meno che non sia un esperto di giustizia. Parla con cognizione di causa. E sulla base delle sue competenze esprime delle opinioni. Opinioni forti, taglienti e provocatorie, nella fattispecie. Partigiane per natura, come lo sono tutte le opinioni. Tesi radicalmente opposte a quelle espresse in materia dal sottoscritto o da Andrea Manna sulla Regione. Sovrapponibili, almeno in parte, a quelle di Fabio Pontiggia sul Corriere del Ticino.
Il terremoto che ha investito Palazzo di Giustizia ha spaccato l’opinione pubblica e, di conseguenza, anche la stampa e la società civile. Per brevità non stiamo a far la conta delle donne e degli uomini di legge che si sono espressi per l’una o per l’altra tesi. Gli argomenti da ambo le parti, non mancano. E noi continuiamo ad essere convinti che il Parlamento abbia sanato - con una toppa, stavolta migliore del buco - una procedura sgangherata e zeppa di violazioni elementari (e costituzionali). Non c’è stata alcuna particolare spartizione partitica nella soluzione decisa dal Gran Consiglio anche perché, salvo la Lega, le forze politiche interessate avevano i sostituti per cambiare i “bocciati”. Il Manuale Cencelli sarebbe comunque stato osservato.
Il “non detto” di questa vicenda sta nel solito chiacchiericcio velenoso, secondo il quale un giornalista, in questo caso Francesco Lepori, esprime un’opinione o l’altra perché si ritiene che sia amico di questo o di quell’altro o per tutelare questa o quell’altra fonte. Un metodo schifoso per squalificare chi esprime una tesi, evitando in questo modo di confrontarsi nel merito. Purtroppo di questo malandazzo viene fatto oggetto ogni giornalista che esprime delle posizioni forti e nette. E i primi ad alimentarlo, spesso, sono proprio i colleghi, compiacendosi sui social network, tra le righe di un pezzo, nei raduni da comari al lavatoio della calunnia. Così facendo non conta più quel che dici, ma il sospetto (quasi sempre campato per aria) del perché lo dici. Perché il giudice o il procuratore ti passa le notizie, perché sicuramente c’è qualche finanziatore occulto, perché sei amico di quel politico o di quel funzionario. Siamo alla solita anticamera del sospetto che non spalanca il portone sulla verità ma sul khomeinismo (Giovanni Falcone). E quando all’orecchio mi arrivano queste teoremi, come atto d’igiene mentale e professionale, interrompo subito l’interlocutore e gli dico: “Lo sai che in questo momento c’è un altro giornalista che sta dicendo la stessa cosa di noi?”.
Lungi quindi da me dal difendere la casta dei giornalisti, che esiste, e che, come ogni casta, porta in dote molti più vizi che virtù, più invidie e gelosie che rispetto e apprezzamento per il lavoro altrui.
Personalmente ho avuto modo di dibattere pubblicamente della vicenda dei procuratori con Francesco in due occasione, durante Matrioska. Entrambi abbiamo difeso con fermezza e passione la nostra tesi, ma riconoscendoci la buonafede e la solidità dei rispettivi argomenti. Così deve essere, in democrazia.
A memoria non ricordo un’altra Commissione parlamentare che abbia segnalato un giornalista per aver espresso un’opinione. E già questo dimostra quanto sia stata maldestra l’iniziativa. I Commissari che si sono sentiti toccati dal commento di Francesco Lepori, avevano un ventaglio di opzioni per far sentire la propria legittima e sacrosanta voce critica, senza ricorrere a un atto formale e strampalato che impegna un’istituzione del Gran Consiglio in una controversia grottesca.
Anche perché la questione di fondo è un’altra. Il punto è se i giornalisti del Quotidiano, durante il Quotidiano, possano esprime opinioni, schierando de facto la testata, di volta in volta, pro o contro il Governo, il Parlamento, un Municipio, il Ministero Pubblico, un’azienda, eccetera. A me francamente non disturberebbe, anzi, ma il tema può essere certamente oggetto di discussione. Anche perché non è un modus operandi consolidato al Quotidiano quello di prendere le parti.
Detto questo non montiamo eccessivamente la panna, noi pennivendoli. Non c’è alcuna crescente ingerenza da parte della politica ticinese sull’operato dei giornalisti, come sostiene l’ATG. La pandemia ha reso i rapporti più tesi e i governanti sono maggiormente suscettibili alle critiche - invero assai rare - al loro operato (soprattutto in materia di contrasto al Covid). Ma sono tensioni normali, comprensibili, che ciclicamente si ripropongono nel corpo a corpo necessario per la democrazia tra stampa e politica. L’importante è che ognuno continui a fare il suo - senza indietreggiare e senza piagnucolare - consapevole del proprio ruolo e dei propri limiti.