Le riflessioni del direttore di AITI a margine della Matrioska dedicata ai 25 anni delle 101 misure
di Stefano Modenini
La settimana scorsa ho guardato una puntata per certi versi spumeggiante di Matrioska su Teleticino. Alla televisione cerco di riservare il tempo necessario ma ne deve valere davvero la pena. Si rievocavano da Marco Bazzi le 101 misure di Marina Masoni e quella stagione politica contraddistinta, chiamiamola così, dalla deregolamentazione.
Marina Masoni nel suo percorso politico è stata soprattutto criticata, pochi si sono dati la briga di analizzare per davvero le sue proposte. Aveva un progetto politico in mente e una visione politica perlomeno a medio termine. Dopo di lei da questo punto di vista il nulla o quasi.
Bisognerebbe imparare a collocare le persone che agiscono, soprattutto in politica e in economia, nel loro giusto contesto storico. Anche Margareth Thatcher, con le dovute proporzioni, ha conosciuto il medesimo destino, ma nel giudicarla bisognerebbe prima di tutto chiedersi qual era lo stato della Gran Bretagna quando la Thatcher prese il potere alla fine degli anni settanta del secolo scorso e diventò primo ministro.
L’Inghilterra alla fine degli anni settanta era il grande malato d’Europa. La produttività del lavoro era una delle più basse del Continente e il paese era fortemente indebitato, tanto che si prefigurò la necessità di chiedere un finanziamento all’Unione europea. Gli scioperi erano all’ordine del giorno e i sindacati dettavano la politica del Governo inglese, totalmente condizionata dunque.
I servizi ai cittadini non funzionavano, ad esempio non c’erano i bus per portare a scuola gli studenti e nessuno raccoglieva la spazzatura nelle strade, perché i sindacati erano impegnati a protestare, soprattutto il potente sindacato dei minatori. L’assenteismo era a livelli impressionanti.
Alle elezioni del 1979 la Thatcher spazzò via i laburisti e piegò questo modo di fare sindacato perché le persone non ne potevano più. Il programma liberista di Margareth Thatcher prevedeva meno tasse, meno governo, salari più alti e prezzi sotto controllo. Venne realizzato.
Anche Marina Masoni quando entrò nel Consiglio di Stato, prima donna nel Cantone nel 1995, era confrontata a una situazione economica difficile. Tassi di interesse elevati, forte disoccupazione, condizioni quadro per fare impresa molto deboli, competitività fiscale inesistente o quasi. Anche per lei vale lo stesso discorso. La sua azione dovette reagire alla situazione economica catastrofica dell’epoca. Era a tutti chiaro che la ricetta da mettere in campo non poteva essere quella dell’assistenzialismo.
Si dice ancora oggi che Marina Masoni ha svuotato le casse pubbliche e attirato aziende che hanno lasciato poco e nulla sul territorio. I dati smentiscono queste affermazioni. Se consideriamo i gettiti effettivi, quindi anche le dichiarazioni d’imposta passate in giudicato, il saldo dei gettiti d’imposta è più che positivo. Tornando nella parte alta della classifica della competitività fiscale, il cantone Ticino ha finito per attirare sul territorio imprenditori, buoni contribuenti in quanto a reddito e sostanza e attività economiche che non erano solo delle meteore. La gran parte delle aziende che pagano le imposte in Ticino, fra cui numerose sono quelle appartenenti all’organizzazione che io dirigo, sono in Ticino dagli anni settanta e ottanta. Non le ha portate Marina Masoni, ma certamente lei non le ha fatte scappare.
Anche Marina Masoni, come Margareth Thatcher e tanti altri pertanto, andrebbero giudicati collocando la loro azione nel rispettivo contesto storico. Certo che quella stagione ha prodotto delle derive che oggi appaiono molto discutibili, ma solo chi non immagina e non fa non sbaglia mai. In ogni caso, fra quelli che criticano Marina Masoni non pochi non hanno mai fatto impresa e non sono mai stati confrontati alla necessità di fare uno stipendio alla fine del mese.
Siamo un piccolo fazzoletto di terra di 350'000 anime, in diminuzione, che passa molto tempo a parlarsi addosso invece che unire le forze e agire. I contribuenti fiscali sono poco più di 200'000 e di questi oltre 50'000 persone non pagano un franco d’imposta. Circa 18'000 contribuenti con un reddito imponibile di almeno 100'000 franchi pagano quasi il 60 % di tutte le imposte delle persone fisiche. Se ci aggiungiamo i circa 130 milioni di franchi pagati ogni anno dai tanto bistrattati lavoratori frontalieri con le imposte alla fonte, abbiamo un quadro più esaustivo della nostra situazione.
Siamo di gran lunga il Cantone più sociale della Svizzera, le deduzioni fiscali per chi ha figli sono le più elevate della Confederazione. La stessa famiglia ticinese con due figli che dovesse spostarsi a Berna, nel canton Giura o in alcuni altri Cantoni pagherebbe più imposte e dovrebbe fare fronte a un costo della vita più elevato.
Oggi giustamente si dedica sempre più attenzione al superamento delle disuguaglianze sociali ed economiche, alla responsabilità sociale, alla protezione dell’ambiente, alla qualità della vita e alla messa a disposizione di servizi appropriati per conciliare lavoro e famiglia. Si tratta di una svolta davvero epocale e non provvisoria. Ma la competitività nel mondo non è sparita così come i posti di lavoro continuano a crearli soprattutto gli imprenditori. E le imprese, anche se a qualcuno non piace, devono prima di tutto realizzare il loro obiettivo primario che è quello di fare profitti, perché è con i guadagni che si fanno gli investimenti e si crea quel substrato fiscale che permette allo Stato di dare servizi alla collettività.
Se prima c’è stata una certa stagione del liberismo (ben poco tuttavia alle nostre latitudini, siamo sempre stati un Cantone per metà assistenzialista), oggi c’è la stagione dell’equilibrio fra economia e società. Nella quale dobbiamo essere bravi a inserire elementi di libertà economica che sanno convivere con l’attenzione alle opportunità delle persone e ai più deboli. Per fare questo è necessario avere una visione strategica sui prossimi 20 o 30 anni. Proprio quello che manca.
* direttore Associazione Industrie Ticinesi