"Lo conobbi sul finire degli anni Ottanta, quando iniziai la mia carriera di giornalista a Locarno, al Giornale del Popolo"
Discusso. Controverso. Onorato e disonorato. Osannato e accusato. Amato e odiato. Processato e assolto. Egocentrico. Generoso. Intuitivo. Determinato. Innovativo. Visionario. Sicuramente coraggioso, uno con due palle così.
Ma a volte esagerato, soprattutto negli ultimi anni di carriera, quando nel suo rapporto informativo sull’operazione “Mato Grosso” – era il 1992 - costruì un castello di tesi che andavano oltre la realtà dei fatti accertati.
Me lo raccontava cercando di convincermi che le sue tesi reggessero. Se ricordo bene, ipotizzava il coinvolgimento nei traffici di droga dei poteri forti dell’economia mondiale e aveva immaginato una pista che portava nientemeno che a Silvio Berlusconi.
E proprio quell’operazione, condotta in Brasile a briglie sciolte e fuori da ogni controllo istituzionale, lo fece entrare in conflitto con i suoi superiori e, dopo mille polemiche, segnò la fine delle inchieste mascherate da parte dell’antidroga ticinese.
Fausto “Tato” Cattaneo è morto ieri notte a Locarno all’età di 75 anni. Era nato a Roveredo Grigioni e dopo aver gestito il ristorante di famiglia era entrato in polizia. Venne nominato alla testa del servizio antidroga di Locarno nel 1975 prima di dirigere, dal 1987 al 1992, il Servizio informazioni sulla droga della polizia svizzera.
È stato senza dubbio, negli d’oro dell’antidroga ticinese, il poliziotto più famoso della Svizzera. Protagonista assoluto di quei tempi “eroici”, da Miami Vice, oggi rievocati in “Narcos”, il celebre serial di Netflix.
In quegli anni, per premiare l’impegno della Polizia cantonale, venne in Ticino nientemeno che il comandante della DEA, l’antidroga statunitense. Ricordo quella serata in un ristorante di Riazzino, con Cattaneo, i suoi colleghi, e l’allora comandante Mauro Dell’Ambrogio.
Per il suo lavoro sotto copertura Cattaneo ha ottenuto riconoscimenti dall’Associazione internazionale delle polizie antidroga, dalla DEA, dall’FBI, dalla BKA, dall’Interpol e da altre polizie europee.
Lo conobbi…
Lo conobbi sul finire degli anni Ottanta, quando iniziai la mia carriera di giornalista a Locarno, al Giornale del Popolo. Ci sentivamo regolarmente. Amava parlare e raccontare. Ma a una condizione: che il suo nome non uscisse mai. Già allora era nel mirino dei cartelli internazionali della droga. E lui si faceva chiamare Pierfranco Bertoni.
Un giorno mi rivelò un sequestro di diversi quintali di cocaina avvenuto, mi pare, nel porto di Amsterdam. La droga era nascosta in barili di bile di toro e a quell’operazione lui aveva preso parte. Scrissi l’articolo. Mi pare che il titolo fosse tipo “Vi racconto come mi sono infiltrato tra i narcos”.
Il giorno dopo mi chiamò furibondo il comandante Dell’Ambrogio. Mi chiese di smentire quella storia, perché raccontandola avrei messo in pericolo la sicurezza di Cattaneo. Ma non c’era nulla da smentire. Era tutto vero. E alla fine non successe nulla.
I “Cento chili” di eroina
Nel frattempo, a Bellinzona erano stati sequestrati a bordo di un Tir i famosi cento chili di eroina (meglio, di morfina base, che sarebbe stata raffinata in un finto laboratorio creato da Cattaneo a Roveredo). In manette erano finiti in cinque e tra questi quello che era considerato il “boss” dell’organizzazione, il turco Haci Mirza, che però secondo il suo legale era semplicemente “un buon paesano dell’Anatolia”.
Seguii quel processo appassionante, con l’allora procuratore pubblico Dick Marty in veste di accusatore. Il principale imputato, Mirza, appunto, venne condannato nell’aprile del 1989 a 17 anni di carcere.
La Lebanon Connection e le dimissioni di Elisabeth Kopp
E da quel caso, che Cattaneo aveva orchestrato sotto copertura, era nata la “Lebanon Connection”, che aveva portato all’arresto a Zurigo dei fratelli siro-libanesi Jean e Barkev Magharian, commercianti di tappeti.
Un caso che coinvolse la finanziaria Shakarchi, nel cui consiglio di amministrazione sedeva il marito della consigliera federale Elisabeth Kopp. Quest’ultima avvertì il marito consigliandolo di dimettersi immediatamente e quella telefonata le costò le dimissioni. Era il 1988.
Erano i tempi eroici dell’antidroga ticinese. Cattaneo lavorò sotto copertura infiltrandosi nelle organizzazioni balcaniche e tra i cartelli sudamericani della cocaina, dalla Colombia alla Bolivia, fino al Brasile.
L’omicidio Troja a Losone
Ma il nome di Cattaneo a un certo punto iniziò a girare e le minacce si fecero sempre più concrete. Nel febbraio del ’92 nel parcheggio dell’Hotel Losone l’informatore della polizia italiana Alessandro Troja, 54 anni, fu freddato da ignoti con un colpo di pistola alla testa. Nella sua auto venne trovata una pallottola che avrebbe dovuto essere destinata a Cattaneo, il quale in quelle ore doveva incontrare Troja.
Il suo libro denuncia
Nel 2001 Cattaneo pubblicò il libro-denuncia “Comment j’ai inflitré les cartels de la drogue” per l’editore parigino Albin Michel, poi tradotto in italiano con il titolo “Operazioni sotto copertura. Come ho infiltrato i cartelli della droga”.
E nel 2015 l’ormai ex commissario fu processato con l’accusa di denuncia mendace e di sequestro dopo l’arresto di un ispettore federale, con il quale aveva avuto in passato contrasti professionali, avvenuto nel 2003. Ma alla fine fu assolto.
Abbandonato dai suoi colleghi e perseguitato dai sicari sudamericani, raccontò così, qualche anno fa, i suoi anni eroici.
Così raccontò i suoi anni eroici
“Molti, in giro per il mondo, mi chiamano ancora Signor Bertoni: Pierfranco Bertoni era infatti uno dei nomi di copertura che usavo quando mi infiltravo nei cartelli internazionali dello spaccio di droga. Lavorare come agente infiltrato, undercovered come si dice in gergo, non è stato facile. In diverse missioni ho messo a repentaglio la mia vita e quella dei miei familiari. I boss della droga non ci pensano due volte ad uccidere una persona, anche se è un poliziotto.
Mi sono reso conto che la droga va combattuta ai suoi vertici quando, negli anni '70, ero in forza al servizio antidroga della polizia di Locarno. Ogni giorno avevo a che fare con giovani tossicomani, distrutti dalla schiavitù dell'eroina. Io, poliziotto, dovevo sbattere in galera questi poveretti che, invece, avevano bisogno di assistenza medica e psico-sociale. E mentre, in prigione, i loro problemi non venivano certo risolti, i grossi trafficanti di droga prosperavano e riciclavano tranquillamente i loro guadagni miliardari nelle nostre banche.
Grazie anche alla sua posizione geografica a ridosso delle grandi città industrializzate del nord Italia, negli ultimi 40 anni il Ticino è diventato un importante centro finanziario e bancario. E quando ingenti capitali attraversano le frontiere, non tutti i soldi che arrivano sono "puliti": vi è danaro sottratto al fisco, danaro proveniente dalla criminalità organizzata, dai traffici di droga, dal contrabbando di sigarette. E con i soldi arrivano spesso anche i trafficanti e i criminali.
Non potevo starmene quindi con le mani in mano. Per questo, non ci pensai due volte quando, negli anni '80, le autorità cantonali e federali mi proposero di entrare a far parte di nuovi servizi antidroga, incaricati di operare a livello internazionale, tra cui l'International undercover working group. Ho così conosciuto il fior fiore del traffico internazionale di droga, i big boss della mafia turca dell'eroina e quelli colombiani della cocaina.
Di volta in volta sono stato finanziere, commercialista, imprenditore, ma anche autista, guardia del corpo. In mancanza di strutture e mezzi adeguati, ho dovuto spesso arrangiarmi come potevo per presentarmi sotto false sembianze. In molti casi sono stato costretto a ricorrere all'aiuto di amici e conoscenti per sfoggiare costose automobili o per accogliere i trafficanti in alberghi, case o uffici di grande lusso. Molti boss della droga hanno cominciato come pesci piccoli, piccoli delinquenti che venivano dal nulla. Basta poco per impressionarli.
In questi anni ho sviluppato sicuramente un sesto senso per fiutare il pericolo di tranelli e imboscate. Se avessi voluto fare il doppio gioco, avrei potuto diventare milionario. Ancora oggi mi dico però che la più grande soddisfazione è stata quella di essere riuscito a togliere dal mercato centinaia di chilogrammi di eroina e decine di quintali di cocaina, oltre alla confisca di milioni di dollari e beni di lusso di ogni sorta.
Quello che mi rimane sono riconoscimenti, medaglie e ringraziamenti, ricevuti da numerosi corpi di polizia stranieri: i servizi antidroga americani della DEA, FBI, Interpol, Deutschen Bundeskriminalamt. Per il resto ho dovuto lottare diversi anni per farmi riabilitare, dopo le accuse infamanti che hanno portato alla mia sospensione dal servizio. La vita di agente segreto - in giro per il mondo, a stretto contatto con criminali ricchissimi - suscita facilmente strane gelosie e fantasie.
A me, questo mestiere e i problemi degli ultimi anni sono costati la salute e il matrimonio. Ancora oggi, pensionato, sono costretto a girare notte e giorno armato, a prendere continue precauzioni per la mia famiglia. Vari boss mafiosi hanno giurato di farmi la pelle e si sa che la mafia non dimentica mai”.