Di azioni funamboliche e di reti segnate dal ‘pibe de oro’ ce n’è a iosa nel film, ma tutte a supporto di una storia, la storia drammatica di Diego Armando, in particolare dei suoi anni “napoletani”
di Claudio Mésoniat
“Diego Maradona”, un’altra scelta giusta per Piazza Grande, va riconosciuto alla direttrice Lilli. Diciamo subito che non si tratta di un’abbuffata di gol a piacimento. Di azioni funamboliche e di reti segnate dal ‘pibe de oro’ ce n’è a iosa nel film, ma tutte a supporto di una storia, la storia drammatica di Diego Armando, in particolare dei suoi anni “napoletani”.
Da amante del calcio avrei gradito immagini più eloquenti della sua bravura, con angolature diverse, soprattutto con totali dall’alto che rendono ragione dell’intero sviluppo di un’azione. Penso ne esistano, anche se è vero che le sue imprese pedatorie si compiono negli anni 80, quando le riprese televisive non erano così ricche e smaliziate come lo sono oggi. Sta di fatto che nelle due ore e mezza di documentario i capolavori calcistici di Maradona sono inquadrati in buona parte da bordo campo e spesso zoomati: si tratta di una scelta, con l’intento palese di stare “nella mischia”, il più possibile vicini a Diego e alle sue gambe miracolose, ma soprattutto alle espressioni del suo volto, di esultanza o di dolore.
Preziose sono le sequenze tratte da filmati amatoriali, in gran parte inediti, che coprono quasi tutto l’arco di vita di Diego, dai tempi del Boca a quelli di Napoli (e della Nazionale argentina), fino al malinconico rientro in patria e al tracollo psicofisico. Il collante sono voci off di parenti, amici, allenatori, dirigenti, giornalisti sportivi di tutto il mondo.
Ci dicono i cinefili che il regista, Asif Kapadia, si era già fatto conoscere –non certo al vostro ippopotamo- con analoghe ricostruzioni biografiche, quelle di Ayrton Senna e di Amy Winehouse. Qui fa un lavoro istruttivo, quasi didattico, mettendo al centro il gioco del pallone ma per ricordarci quale straordinario potere di riscatto sociale e di identificazione politico-culturale esso eserciti nelle nostre società massificate, attraverso il suo consumo passivo che non per nulla va sotto il nome di una squassante malattia endemica, il tifo.
Dunque aspettatevi di ripercorrere l’infanzia di Diego che cresce nella povertà di uno dei più miseri barios della capitale argentina, ma tuttavia cresce in una famiglia che è ancora davvero una famiglia, padre (operaio), madre e sorelle, per i quali, dice e ripete di continuo il calciatore, ha lavorato e lottato tutta la vita (“Ho fatto tutto sin dall’inizio per poter offrire alla mia famiglia un appartamento degno di questo nome”); e sono loro che quando Diego tornerà in Argentina da figliol prodigo che ha dilapidato i suoi talenti, la sua salute e la sua gloria lo accoglieranno, perdonando senza prediche pasticci e ribalderie.
Sistemata la famiglia, il “pibe de oro” investe talento sportivo e simpatia umana in altre epiche imprese. Sbarca a Napoli, dove c’è tutto un popolo che attende il riscatto da una condizione sociale precaria, penalizzato da uno Stato costoso e inefficiente e da una malavita efficientissima e onnipresente. Un popolo vittima di pregiudizi ma in parte anche artefice della propria immagine indolente e sguaiata. Maradona diventa un idolo, anzi un santo, nel senso quasi religioso della parola, un nuovo San Gennaro che tracima il suo esplosivo sangue calcistico sulla squadra della città e la conduce alla vittoria del suo primo campionato italiano (poi di un secondo). Ci saranno voluti sei anni, ma i tifosi napoletani sono in paradiso.
Non è finita qui, perché c’è un altro popolo che aspetta il suo “redentore”, questa volta in chiave identitaria e politica. Il capolavoro della Nazionale argentina, pilotata da Maradona, sarà non solo di conquistare la Coppa del Mondo ma addirittura di farlo sconfiggendo nella semifinale quell’Inghilterra che sul piano politico-militare aveva umiliato pochi anni prima l’Argentina nella guerra delle Falkland-Malvinas. Per Diego è l’apoteosi.
Poi, subito, il declino. Tra le cui cause c’è senz’altro l’infelice sconfitta dell’Italia nella Coppa del Mondo casalinga, che gli azzurri ‘dovevano’ vincere. Infelice anche la scelta dello stadio di Napoli per il match Italia-Argentina, con i tifosi partenopei costretti per amor patrio a fischiare il proprio idolo che metterà a segno un rigore decisivo per la sua Nazionale. Ci sono altre cause, dai festini a base di cocaina alle relazioni pericolose con la Camorra. Ma dietro gli eccessi e le mosse incaute c’è un denominatore comune, la vera causa della discesa agli inferi di Diego, iniziatasi già nel momento apicale della popolarità.
“A Roma apoteosi. E con questo?”, aveva scritto Cesare Pavese al culmine del successo, dopo aver ritirato il Premio Strega e poco prima di suicidarsi. La gloria, sportiva o letteraria, non sembra in grado di colmare il desiderio di essere veramente amato. Il vuoto resta, anzi è più profondo ora che mai. Il film di Kapadia, a nostro avviso, ha il pregio di rendere palpabile questa radice del disagio, pur senza tralasciare i penosi gradini che il calciatore dovrà scendere, comprese le condanne giudiziarie per spaccio e consumo di droga e fino alle ultime tristi immagini di Diego Armando imbolsito che gioca a calcio in un campetto di Buenos Aires con gli ammalati dell’istituto dove cerca di curarsi dalle dipendenze.