“Ve li ricordate i giovani durante la nostra prima primavera pandemica, mobilitati al servizio dei più deboli, specie degli anziani, incoraggiati da una politica compattata dall’emergenza sanitaria… E oggi?”
di Claudio Mesoniat *
I gesti, anche quelli “dovuti” e scontati, possono contenere a volte degli imprevisti spunti di riflessione e delle chiavi di lettura interessanti. Ieri mattina si ridacchiava tra colleghi sulla trasferta ticinese del presidente della Confederazione a Lugano per l’inaugurazione del nuovo campus USI-SUPSI e annessa conferenza stampa: festival delle banalità e della retorica federale, ci dicevamo.
E invece, guardando le immagini e seguendo gli interventi, il significato dell’evento ha preso uno spessore inatteso che può aiutarci a capire meglio gli stessi fatti dell’attualità che dagli schermi di tutte le dimensioni ci piovono addosso in questi giorni. Ci riferiamo in particolare a quelli che vanno sotto il titolo “disagio e insofferenza dei giovani”.
Incominciamo dalla nostra immagine di copertina, di chiaro sapore federalista (ma non è di federalismo che vogliamo parlarvi, tranquilli). L’immagine stessa ma anche le parole dei tre, sindaco di Lugano, presidente del Governo cantonale e presidente della Confederazione, ci hanno ricordato i tempi della nostra gavetta di confinati, la nostra prima mobilitazione contro lo sconosciuto “virus cinese”. Qualche giorno fa un’amica ci diceva, testualmente: “Ho nostalgia di quella primavera 2020 in cui si remava davvero tutti nella stessa direzione, soprattutto la politica”. Anche noi ce l’abbiamo.
Ricordate? Nessun idillio deamicisiano, le tensioni tra Berna e Bellinzona c’erano eccome, ma si percepiva un clima diverso dalla perenne guerra per bande che viene per solito confusa come lo scopo vero della politica. Può esserne il sale, a patto che il sale non diventi il piatto forte. Le identità politiche possono anche essere in tensione tra loro, ma più forti e chiare sono più dovrebbero tendere, oltre al dialogo robusto, al compromesso e alla costruzione del più largo consenso che permette di costruire, anziché annegare il bene comune nei bicchieri d’acqua delle dispute finalizzate a scaldare l’arena, promuovere la propria immagine (personale o di partito) e accaparrarsi voti.
Bene, ma cosa c’entra tutto ciò con i giovani? Ve li ricordate i giovani durante la nostra prima primavera pandemica, mobilitati al servizio dei più deboli, specie degli anziani? Interpretavano un ruolo che si erano inventati in una scena sociale dominata dal senso della solidarietà verso i più deboli, incoraggiati da una politica compattata dall’emergenza sanitaria. E oggi?
Le teorie psico che circolano fluenti mettono l’insofferenza giovanile attuale, chiusa in un corporativismo generazionale un po’ egocentrico (e irrealistico, come se l’epidemia non ci fosse più), sul conto della “stanchezza”, della “esasperazione da lockdown”. C’è anche quello. Ma c’è altro.
Proprio ieri il direttore di Pro Juventute ha rotto il linguaggio puramente psico, mettendo l’accento su una parola sempre meno usata (salvo che si parli di scuola): educazione. Con riferimento alla manifestazione di sabato alla Foce di Lugano, Ilario Lodi, interpellato da radio3i ha detto: “Sono del parere che quello che è successo sabato sera non è definibile solo attraverso il termine di disagio. Il disagio è qualcosa di passeggero. Qui c’è qualcosa di molto più serio”. Un problema educativo, ha aggiunto. “Ai giovani questo mondo in cui stiamo vivendo non va più, vorrebbero qualcosa di diverso”.
Lo cambieranno, speriamo, ma hanno bisogno di educazione e di educatori. Compito della scuola, punto e a capo? Eh no, cari adulti, troppo facile scaricare tutto sulla scuola, che la sua parte la sta facendo anche nel sottosopra dell’epidemia. Pensate ad esempio che i giovani non abbiano sempre nella coda dell’occhio lo spettacolo della politica, ormai abbandonatasi alle viete schermaglie che tritano tutto in chiave “amico/nemico” (si vedano le chiassate interpartitiche dove il bersaglio del momento è il ministro della Sanità Berset, non tanto per quel che dice e che fa – in nome di un Governo federale ancora capace di collegialità - ma semplicemente per la targa politica che porta)?
Nei discorsi di ieri all’infopoint di Palazzo Civico a Lugano, il sindaco Borradori, poi ripreso da Parmelin, ha chiamato in causa le famiglie. Se c’è emergenza educativa, come c’è, difficilmente si potrà fare a meno della famiglia. Ma non solo famiglia: l’educazione è un compito corale di figure adulte che tali siano, cioè animate da ideali abbastanza grandi da illuminare il cammino di una vita. Di avere davanti agli occhi figure del genere hanno bisogno i giovani. L’educazione civica di cui parla Lodi è un must, ma di fronte alle prove più sfidanti della vita non basta.
Di una di questa sfide, che pende come una minacciosa spada di Damocle sulla testa dei nostri giovani, ha parlato a Palazzo Civico Norman Gobbi. Non dei giovani genericamente, ma proprio dei giovani ticinesi. Si inaugurava oggi quello che propriamente possiamo definire, se non un tempio, una dimora della cultura e della scienza, il nuovo campus universitario di Lugano. Un bel passo avanti per la nostra università. Ma Gobbi ha messo, come si suol dire, i piedi nel piatto della festa USI-SUPSI.
Se formiano i giovani, ha detto, non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che anno dopo anno centinaia di giovani ticinesi accademicamente formati non trovano lavoro nel loro Cantone. Una delle ragioni di questa nuova emigrazione endemica che si sta ingrossando a vista d’occhio si chiama mercato del lavoro. “In Ticino i lavoratori svizzeri sono ormai meno della metà degli occupati”, ha ricordato il presidente del Governo cantonale. Ecco un tema sul quale, se non vogliamo incrementare oggettivamente l’ansia psico-sociale dei nostri giovani, non possiamo chiudere gli occhi mentre stiamo faticando a uscire dalla pandemia. A meno di uscirne, come si temeva, peggiori.