"Sono delusa per la non reazione della politica ticinese al vile attacco a Dadò. Le donne possono fare la differenza"
di Simona Genini*
La restrizione delle libertà personali durante la pandemia. La compatibilità fra l’islam militante e la democrazia. Il controllo degli hooligan nel calcio svizzero. Il diritto dei «climatisti» di violare a legge in nome del loro credo. La gestione dell’ordine pubblico attorno ai centri federali per richiedenti l’asilo. I confini fra libertà d’espressione ed estremismo politico, di sinistra e di destra. La guerra nel Vicino Oriente. La guerra in Ucraina.
Questa lista di temi politici estremamente divisivi è tutt’altro che esaustiva, e non include le beghe che possono sorgere a livello regionale e comunale. Ognuna di queste discussioni suscita emozioni forti, da una parte dall’altra degli opposti schieramenti, e non ci vuole molto perché l’avversario venga sbrigativamente trasformato in un nemico – tramite etichette linguistiche («complottista!», «negazionista!») che sono in realtà insulti abilmente travestiti.
La democrazia diretta svizzera, come dice una simpatica battuta, in realtà è una forma di rissa incanalata – nella quale facciamo in modo che lo scontro fra idee, anche duro, si sostituisca allo scambio di pugni e calci. Il primo e più alto dovere dei politici, perciò, sarebbe di allineare ogni loro gesto e ogni loro parola a questo sforzo civilizzatore, facendo in modo che le inevitabili divergenze (per quanto turbolente) rimangano contenute negli argini della democrazia.
Questo dovere di mantenere toni civili non è una formalità e non è un dettaglio, specialmente in Ticino. La conflittualità politica è nel DNA del nostro Cantone, la cui storia contemporanea parte pur sempre dall’assassinio di un Consigliere di Stato in carica. È un retaggio che non possiamo minimizzare, e dobbiamo tenere altissima la vigilanza affinché questi istinti scritti nella nostra anima collettiva non tornino a scatenarsi.
Questa lunga premessa mi serve a esprimere la delusione che ho provato in questi giorni, assistendo alla (non) reazione della politica ticinese dopo il vile attacco anonimo nei confronti del collega gran consigliere Fiorenzo Dadò. Della questione si è occupata quasi solo laRegione, con un editoriale di Andrea Manna e un intervento di Edy Salmina, che ci ha ricordato alcune cose che dovremmo sempre tenere a mente: «Una minaccia colpisce anzitutto chi la subisce, ma quella a un uomo politico concerne ognuno». Infatti, «indipendentemente da chi è preso di mira, a essere intimidita è la libertà di tutti coloro che svolgono un’attività pubblica – e chi non coglie questo rischio vede l’albero ma non la foresta».
Per chiudere con una nota speranzosa, sono comunque convinta che questo sia uno dei problemi sul quale la accresciuta presenza femminile in politica può fare davvero la differenza, e farla in tempi molto rapidi. Crescere in un corpo di donna, come tutte sappiamo, significa infatti convivere con la nostra vulnerabilità, e con la consapevolezza di essere esposte molto più dei maschi al rischio di subire violenza fisica – e questa non è ideologia, ma pura e semplice biologia. La nostra condizione ci rende particolarmente sensibili, e giustamente intolleranti, all’aggressività fisica – e dobbiamo essere in prima linea per espellerla dal discorso pubblico.
Una delle prime cose per cui siamo chiamate a batterci nel dibattito democratico, perciò, è la condanna inappellabile di ogni cedimento alla seduzione della violenza fisica – che possiamo volentieri lasciare ai tempi ormai remoti in cui la politica era un affare per soli maschi, spesso all’insegna della logica primitiva del confronto fra qualità virili.
*deputata PLR