Dobbiamo resistere ai pifferai dell’economia e delle lobby che si ostinano ad anteporre gli interessi del denaro alla salute pubblica. Lo dobbiamo ai nostri morti, al personale sanitario e a noi stessi
di Andrea Leoni
Il primo errore è stato quello di sentirci pronti. Invincibili e pronti. E invece nonostante gli uffici dedicati a prevenire il rischio, i piani pandemici e i richiami da parte della comunità scientifica, non lo eravamo. Non lo siamo mai stati. Non lo siamo neppure adesso.
Il secondo errore è stato credere che quel che succedeva a Wuhan non ci riguardasse direttamente. Eravamo abituati all’idea che vivere in un mondo globalizzato, non significasse condividere le tragedie dell’umanità. C’erano gli effetti collaterali, questo sì, più o meno dirompenti nella vita quotidiana di ognuno di noi, a dipendenza di dove eravamo collocati nel globo. La crisi finanziaria, l’immigrazione, gli incidenti nucleari, i cambiamenti climatici. Ma la relazione tra causa ed effetto non era mai stata così rapida, e il conseguente legame tra Paesi distanti centinaia di chilometri, non era mai stato così stretto. Se qualcuno crepava in Africa a causa dell’Ebola, interessava a pochi, questo virus sta dimostrando come una morte lontana, può interessare tutti.
Quando abbiamo cominciato a comprendere che ciò che accadeva in Cina ci avrebbe toccato, che eravamo cioè vicini e connessi, il terzo errore è stato credere che avessimo tempo. Qualche mese, forse, magari cullandoci ancora nel’illusione di scamparla grazie al caldo o a chissà cosa. Invece, viaggiando sugli aerei e per via delle intense relazioni umane e commerciali che legano l’Occidente con il grande paese asiatico, il Covid19 si stava già diffondendo in Europa nell’inconsapevolezza dei Governi che avevano appena cominciato ad abbozzare una strategia.
La prima zona rossa e il Ticino
Poi è successo che in un piccolo paesino della bassa lombarda, Codogno, il 21 febbraio fosse certificato il paziente 1, e poi 2, e 3, e 4 nei comuni confinanti e anche sui colli Euganei, in Veneto. A quel punto cambia tutto.
Il Governo italiano istituisce la zona rossa il 23 febbraio e blinda i primi nuclei. Da quel giorno tutte le manifestazioni pubbliche vengono annullate in Lombardia e nelle altre regioni toccate. A Milano si ferma anche la Seria A (Inter-Sampdoria). Di lì a qualche giorno chiuderanno tutte le scuole nel nord Italia.
In Ticino, invece, continuiamo ad avere una percezione errata delle distanze, con lo stesso approccio che abbiamo avuto con la Cina. Si dice che il Lodigiano è distante oltre 100 chilometri, che non vi sono frontalieri che provengono fin da laggiù, si fanno battute su Miss Mondo e sulle cene a Milano. Il Rabadan prosegue indisturbato fino alla conclusione. Ma il 25 febbraio registriamo già il primo caso confermato sul nostro territorio, sia cantonale che federale.
Sulla scacchiera geografica eravamo affacciati sul più grande focolaio occidentale di Coronaviurs. Era inevitabile, senza interventi preventivi e drastici, che a nostra volta diventassimo il primo grande incendio della Svizzera. Era la logica, il semplice buonsenso, a suggerirlo. E così è avvenuto.
I giorni disgraziati
In quei giorni disgraziati il tempo è scandito dalla contraddizione dei due mondi confinanti ma diversi, opposti, quarto errore. Italia e Svizzera, divisi da una frontiera aperta (sic!), adottano approcci antitetici. Da noi si dice che gli italiani esagerano, come sempre. Il partito che “è solo un’influenza” conosce i suoi massimi successi. Le poche voci che si levano contro questa narrazione vengono infangate, derise, offese. Si teorizza - in primis i Consiglieri Federali Berset e Cassis - che chiudere i confini non serve a nulla. O al massimo può essere efficace come misura preventiva, ma ormai è tardi…E allora perché, signori ministri, oggi, con i buoi ormai fuori dalla stalla, tutti, e dicasi tutti, i Paesi del Continente hanno blindato le frontiere?
Tre settimane
Dovremo attendere il 13 marzo (tre settimane!) in Ticino prima che si chiudano le scuole e si adottino misure adeguate di restrizione della vita sociale. Il Consiglio di Stato è frastornato tra le pressioni di Berna - con la vergognosa discesa in Ticino di Daniel Koch (da oggi finalmente in pensione) e le risate confederali descritte da Raffaele De Rosa - e le spaccature nello Stato Maggiore, tra medici che invocano restrizioni all’italiana e chi non le vuole.
Da noi, come su questo punto in tutto l’Occidente, quinto errore, c’è l’idea che il lockdown sia un metodo applicabile solo in Cina. Come se la nostra economia, e i nostri cittadini, fossero antropologicamente diversi, di un’altra razza, i qualche modo immuni. Altra presunzione, altra ingenuità.
Il risveglio dal mondo delle fiabe
Il momento in cui ci risvegliamo dal mondo delle fiabe, e tutti quanti, dai governanti ai cittadini, comprendiamo di essere cinesi e italiani, è la settimana del 16 marzo. Il Consiglio di Stato fa pace con la sua comunità e adotta il lockdown, sfidando a petto in fuori il Consiglio Federale. A Berna, mentre ci troviamo in piena emergenza e cominciamo a contare i morti a decine, pensano bene di tenerci impegnati in una litigata di una settimana, fino ad arrivare alla gentile concessione delle finestre di crisi cantonali (danke un corno!). Concessione che, peraltro, va rinnovata settimana dopo settimana.
C’è una pessima aria
Siamo ad oggi, e c’è una pessima aria in giro. In Ticino stiamo scoprendo che le misure restrittive funzionano anchequi. Dopo quasi due settimane di sacrifici cominciamo a intravvedere qualche risultato. Ma anziché convincerci della necessità d’intensificare e prolungare lo sforzo, oltre Gottardo e nel nostro Cantone cominciano le pressioni scandalose di chi vuole aprire il prima possibile, comunque non oltre il 19 aprile.
Errare è umano ma perseverare è diabolico. Dopo quanto appena descritto lascia sgomenti il fatto che qualcuno ancora non comprenda come questa epidemia ci riguardi tutti allo stesso modo. Come quel che accade a Wuhan, a Como, o a Zurigo, o a Parigi, o a Madrid, ci tocchi direttamente e ci leghi in un destino comune.
Come possiamo pensare che il Ticino riapra le frontiere finché la Lombardia non avrà risolto i suoi problemi, o viceversa? La scorsa settimana il tasso di crescita dei contagi nel nostro Cantone e nelle province confinanti del Comasco e del Varesotto - che sono messe molto meglio di noi - è stato quasi identico. Come può pensare la Svizzera tedesca di non avere lo stesso problema del Ticino, almeno fintanto che il Gottardo e il San Bernardino resteranno aperti? Sarebbe delittuoso tornare al punto di partenza e credere che si possano attuare politiche opposte o incoerenti. La Cina è blindata, non si entra e non si esce dal Paese, proprio perché gli ultimi casi sono stati tutti d’importazione.
L’avvertimento dell’OMS e la lezione di Codogno
Lo ha detto chiaro Takeshi Kasai, direttore regionale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per il Pacifico occidentale: "L'epidemia è tutt'altro che finita in Asia e nel Pacifico. Questa sarà una battaglia a lungo termine e non possiamo abbassare la guardia. Anche nei paesi e nelle aree di questa regione in cui la curva dei contagi si è appiattita, continuano a comparire nuovi focolai e i casi importati continuano a destare preoccupazione. I paesi in cui si registra una riduzione dei casi non devono abbassare la guardia, altrimenti il coronavirus potrebbe ritornare con forza”. Figuriamoci noi che ci siamo appena entrati nell’epidemia.
Sapete che è successo a Codogno? Al termine del periodo della quarantena erano arrivati a 0 casi. Poi il Governo italiano, per pochi giorni, ha trasformato la Lombardia in zona arancione. In quel regime di crisi i negozi e gli uffici potevano ancora restare aperti. Il lodigiano si è adeguato. Risultato? Una ripresa della circolazione del virus.
Umili e prudenti
Dobbiamo essere umili e prudenti. Imparare dai nostri errori e da chi ci è passato prima di noi. Vale anche per la classe medica. Non vorremmo che il mantra delle “mascherine non servono”, lo scandalo delle quarantene a giorni variabili, le certezze sulla guarigione dopo due giorni senza sintomi, si rivelasse il nuovo rosario di errori di cui pentirci a breve.
Ai nostri morti - che come in una guerra sono tutti nostri nonni, nostre madri, nostri fratelli, figli di questa terra - dobbiamo la resistenza fino all’ultimo giorno necessario, affinché il loro sacrificio non sia stato vano.
Resistere!
Dobbiamo resistere ai pifferai dell’economia e delle lobby che si ostinano ad anteporre gli interessi del denaro alla salute pubblica. Lo dobbiamo anche ai medici, agli infermieri, a tutti i direttori degli ospedali pubblici e privati, che in Ticino hanno realizzato un miracolo, tenendo a galla una barca in mezzo a una tempesta molto più grande di lei. Lo dobbiamo a noi stessi, ai sacrifici che quotidianamente stiamo facendo, e che non permetteremo vengano gettati al vento, per qualche irriducibile filibustiere del liberismo.
La ricerca della verità per i nostri morti e i loro cari
Ai morti e alle loro famiglie dobbiamo anche la ricerca della verità. Non è il momento della polemica o dei processi, ma per favore risparmiateci almeno la retorica buonista da parte dei rappresentanti di una Confederazione che ha trasformato il Ticino in un laboratorio per cavie, sacrificandolo sull’altare dell’interesse nazionale.
Risparmiateci, per cortesia, l’ampollosa oratoria su fantomatici modelli da imitare, sulle politiche di proporzionalità e sul fatto che abbiamo agito in tempo. Sembra di rileggere le cronache nei giorni della tragedia del Vajont. Oggi, 31 di marzo, si contano in Ticino 120 morti: nessuno dica che questa ecatombe era inevitabile. Perché non è vero. I fatti, e i morti, ce lo gridano in faccia.