IL FEDERALISTA
Trump e il risveglio dell’Europa
L'analisi di Claudio Mésoniat: "Tra il disimpegno americano dalla NATO e l’aggressività della Russia putiniana, ecco ripresentarsi per i Paesi del Vecchio Continente l’opportunità che si lasciarono sfuggire 70 anni fa"

di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato su ilfederalista.ch

I media liberal americani, capitanati dal mitico New York Times e dalla CNN, sono spesso le prime fonti alle quali noi giornalisti europei (e le stesse agenzie) attingiamo notizie sul Paese a stelle e strisce e che, di conseguenza, segnano il nostro primo decisivo impatto con le vicende ritenute notiziabili dalla stampa USA.

Si tratta in genere di news che, sin dalla titolazione, sono già passate attraverso un inevitabile filtro di valutazione culturale e politica. Bias del quale in realtà siamo spesso inconsapevoli. Tutto questo si accentua, in modalità parossistiche, quando le informazioni riguardino Donald Trump e le sue gesta.

Infatti, è bene sapere che le testate menzionate (come tante altre che si sono conquistate nel tempo la fama di ottime e attendibili fonti giornalistiche) praticano da mesi, in particolare dal 20 gennaio, una implacabile campagna militante anti Trump. Pirata della politica, spaccone e buffone della diplomazia, l’attuale inquilino della Casa Bianca non sembra tuttavia dispiacersene troppo. Anzi. Se da una parte, all’interno del Paese può comunque contare su uno stuolo di media che lo portano in palmo di mano (ma in Europa hanno scarsa udienza), dall’altra il tycoon sembra a volte puntare proprio sul caos e sul conseguente disorientamento, degli avversari come degli alleati.

Beninteso, non stiamo parlando del cosiddetto fact checking, ovvero della verifica (che è di moda ostentare) alla quale i citati media sottopongono opportunamente ogni dichiarazione o gesto del loro (e malgrado loro) presidente, bensì di una previa interpretazione di fatti e parole in chiave tendenzialmente ostile. Tutto comprensibile e, verrebbe da dire… condivisibile. Ma -com’è inevitabile- una tale griglia pregiudiziale può distorcere i fatti o, comunque, presentarli in modo incompiuto. 

La gazzarra, i video, le analisi apocalittiche

È stato il caso, ad esempio, con la famosa gazzarra avvenuta nello Studio Ovale il 28 febbraio scorso. La gazzarra, tra Zelensky, Trump e il suo vice Vance, c’è stata, ma per alcune ore ci è stata presentata dai media come l’evento integrale e come tale l’abbiamo rubricata mentre, in realtà, si trattava della selezione di un incontro/conferenza stampa assai più lungo. In un breve torno di tempo ecco però fiorire le teorie sull’”imboscata pianificata e orchestrata” dal team di Trump allo scopo di mettere in cattiva luce il leader ucraino e rompere i rapporti con Kiev, compiacendo l’autocrate del Cremlino in vista di una imminente “spartizione dell’Europa”. Thomas Friedman sul NYT non si era trattenuto dal definire il nuovo inquilino della Casa Bianca “un agente russo”.

Chi abbia avuto in seguito la pazienza di cercare in rete e sorbirsi l’intero evento, ha potuto assistere alla quarantina di minuti che avevano preceduto la breve “sanguinosa” schermaglia conclusiva: pacati, se non cordiali. Successivamente si è venuti a sapere (da fonti europee) che era stato lo stesso Zelensky a insistere, contro il parere dei propri consiglieri, per ottenere la conferenza stampa e la vetrina televisiva. La trasferta a Washington avrebbe dovuto avere il solo scopo di apporre le firme a un accordo già raggiunto per lo sfruttamento delle riserve ucraine di minerali rari da parte di ditte statunitensi.

Vistosamente alterato e offeso dal comportamento “ingrato” del presidente ucraino, che non si tratteneva dal dare sulla voce ripetutamente al tycoon e ai suoi collaboratori, Trump ha in seguito colto l’occasione –con una scelta vendicativa e pericolosa- per mostrare la sua onnipotenza, interrompendo per un paio di giorni la fornitura di armi a Kiev e la condivisione di informazioni di intelligence. Tutto rientrato, appunto, in poco più di 48 ore. E così veniamo al presente.



 
Trump e il risveglio dell’Europa
Prendiamo spunto oggi dalla gazzarra del 28 febbraio alla Casa Bianca (con una nota di carattere professionale che il lettore potrà tranquillamente tralasciare…) per tentare una lettura dell’enigmatica e tempestosa politica estera di Donald Trump e arrivare al nodo che più ci sta a cuore, il futuro dell’Europa. Tra il disimpegno americano dalla NATO e l’aggressività della Russia putiniana, ecco ripresentarsi per i Paesi del Vecchio Continente l’opportunità che si lasciarono sfuggire 70 anni fa, con la creazione di una Comunità di Difesa e di un inevitabile nucleo politico unitario. La scommessa economica e i problemi etici.
 
Una premessa di carattere professionale.

I media liberal americani, capitanati dal mitico New York Times e dalla CNN, sono spesso le prime fonti alle quali noi giornalisti europei (e le stesse agenzie) attingiamo notizie sul Paese a stelle e strisce e che, di conseguenza, segnano il nostro primo decisivo impatto con le vicende ritenute notiziabili dalla stampa USA.

Si tratta in genere di news che, sin dalla titolazione, sono già passate attraverso un inevitabile filtro di valutazione culturale e politica. Bias del quale in realtà siamo spesso inconsapevoli. Tutto questo si accentua, in modalità parossistiche, quando le informazioni riguardino Donald Trump e le sue gesta.

Infatti, è bene sapere che le testate menzionate (come tante altre che si sono conquistate nel tempo la fama di ottime e attendibili fonti giornalistiche) praticano da mesi, in particolare dal 20 gennaio, una implacabile campagna militante anti Trump. Pirata della politica, spaccone e buffone della diplomazia, l’attuale inquilino della Casa Bianca non sembra tuttavia dispiacersene troppo. Anzi. Se da una parte, all’interno del Paese può comunque contare su uno stuolo di media che lo portano in palmo di mano (ma in Europa hanno scarsa udienza), dall’altra il tycoon sembra a volte puntare proprio sul caos e sul conseguente disorientamento, degli avversari come degli alleati.

Beninteso, non stiamo parlando del cosiddetto fact checking, ovvero della verifica (che è di moda ostentare) alla quale i citati media sottopongono opportunamente ogni dichiarazione o gesto del loro (e malgrado loro) presidente, bensì di una previa interpretazione di fatti e parole in chiave tendenzialmente ostile. Tutto comprensibile e, verrebbe da dire… condivisibile. Ma -com’è inevitabile- una tale griglia pregiudiziale può distorcere i fatti o, comunque, presentarli in modo incompiuto. 
 
La gazzarra, i video, le analisi apocalittiche

È stato il caso, ad esempio, con la famosa gazzarra avvenuta nello Studio Ovale il 28 febbraio scorso. La gazzarra, tra Zelensky, Trump e il suo vice Vance, c’è stata, ma per alcune ore ci è stata presentata dai media come l’evento integrale e come tale l’abbiamo rubricata mentre, in realtà, si trattava della selezione di un incontro/conferenza stampa assai più lungo. In un breve torno di tempo ecco però fiorire le teorie sull’”imboscata pianificata e orchestrata” dal team di Trump allo scopo di mettere in cattiva luce il leader ucraino e rompere i rapporti con Kiev, compiacendo l’autocrate del Cremlino in vista di una imminente “spartizione dell’Europa”. Thomas Friedman sul NYT non si era trattenuto dal definire il nuovo inquilino della Casa Bianca “un agente russo”.

Chi abbia avuto in seguito la pazienza di cercare in rete e sorbirsi l’intero evento, ha potuto assistere alla quarantina di minuti che avevano preceduto la breve “sanguinosa” schermaglia conclusiva: pacati, se non cordiali. Successivamente si è venuti a sapere (da fonti europee) che era stato lo stesso Zelensky a insistere, contro il parere dei propri consiglieri, per ottenere la conferenza stampa e la vetrina televisiva. La trasferta a Washington avrebbe dovuto avere il solo scopo di apporre le firme a un accordo già raggiunto per lo sfruttamento delle riserve ucraine di minerali rari da parte di ditte statunitensi.

Vistosamente alterato e offeso dal comportamento “ingrato” del presidente ucraino, che non si tratteneva dal dare sulla voce ripetutamente al tycoon e ai suoi collaboratori, Trump ha in seguito colto l’occasione –con una scelta vendicativa e pericolosa- per mostrare la sua onnipotenza, interrompendo per un paio di giorni la fornitura di armi a Kiev e la condivisione di informazioni di intelligence. Tutto rientrato, appunto, in poco più di 48 ore. E così veniamo al presente.
 
Leggere Trump

Non vogliamo qui negare che il “fenomeno Trump” sia un ciclone che sta contribuendo ad affrettare il cambiamento dell’ordine mondiale (purtroppo in peggio, come abbiamo già più di una volta sostenuto) e neppure che in qualche modo occorra cercare di interpretarlo. Ma l’impresa è ardua. Ci vuole tempo, pazienza e il ricorso a una pluralità di fonti.

Sta di fatto che martedì a Ryad è stato raggiunto un accordo tra ucraini e statunitensi che ha comportato l’immediato ripristino del sostegno militare di Washington a Kiev, sia come fornitura di armamenti che come condivisione di intelligence spaziale. L’accordo, ora sottoposto all’approvazione di Mosca, prevede un cessate il fuoco immediato di 60 giorni, che potrà essere ulteriormente dilatato “di comune accordo tra le parti”. Inoltre gli USA hanno confermato di aver raggiunto un’intesa “per lo sviluppo delle risorse minerarie critiche dell’Ucraina”.

Un primo tentativo di lettura del trumpismo e delle sue conseguenze a livello internazionale deve muovere dalla costatazione che Trump ha un approccio alla politica estera di tipo non solo nazionalista ma anche mercantilista/finanziario. Con la conseguenza che la difesa delle democrazie e di un mondo globale basato sulle regole (il diritto internazionale) rappresentano per lui un obiettivo secondario, sul quale prevale comunque un altro presupposto: l’ordine mondiale post 1945, sul quale l’Occidente e le sue élite hanno scommesso, ha comportato per gli Stati Uniti un costo troppo elevato, ben superiore ai benefici tratti.

Ridurre la nobiltà della politica a calcoli di bottega può non piacere –a noi non piace- ma è la scelta che gli americani hanno fatto (sebbene mossi, probabilmente, da altri argomenti, tra i quali l’insopportabile “politicamente corretto” imposto dalle élite miliardarie della Silicon Valley). 


Cina, Russia e il nuovo (dis)ordine mondiale

È questa, comunque, la tela di fondo sulla quale, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, Cina e Russia intravedono la possibilità di impostare un nuovo ordine mondiale diviso nelle rispettive sfere di influenza. Per la Russia di Putin si tratta di una riscossa da quella che egli ritiene l’”umiliante” disintegrazione dell’Unione Sovietica, seguita da una (forse evitabile e comunque provocatoria) espansione della NATO nei Paesi Baltici e nell’Europa orientale. Il tiranno di Mosca non nasconde dunque l’intenzione di esercitare un’egemonia sui territori dell’ex URSS e un controllo politico sui Paesi dell’ex Patto di Varsavia.

Quanto alla Cina di Xi, il “ritorno” di Trump rappresenta la chance di trasformare il proprio statuto di seconda potenza economica mondiale (conquistato tramite una formula di oppressivo “capitalismo comunista”) nel ruolo di una vera e propria super potenza globale, con pretese egemoniche sul Pacifico e sul Mar Cinese Meridionale (togliendosi infine la spina nel fianco rappresentata da Taiwan), ma anche con l’espansione del suo potere, innanzitutto economico, in Africa, Medioriente, America Latina e, perché no, Europa.

Ma c’è –prima di venire alla nostra Europa- una nota interessante a proposito degli intenti geostrategici attribuiti all’imprevedibile vulcanico Trump. Si parla di un’idea che il nuovo presidente USA non avrebbe ancora esplicitato ma coltiverebbe in seno: rispecchiando in qualche modo la politica cinese praticata dal predecessore Richard Nixon nel 1972, Trump starebbe cercando di porre un cuneo tra Cina e Russia allineandosi a Mosca per staccarla da Pechino, dove Putin aveva dovuto recarsi col cappello in mano per foraggiare il proprio Paese stremato dall’insensata avventura bellica in Ucraina. Basta guerra e… arrivederci Xi Jinping.

La spartizione dell’Europa? Calma…

Qualche nota sommaria sul nostro continente. Qui al Federalista siamo tra coloro che ardiscono nutrire qualche residua speranza sulla possibilità di un risveglio europeo. Ancora una volta, prevedere le mosse dell’esagitato inquilino della Casa Bianca è impossibile. Anche a proposito del destino della NATO. Continuerà Washington a proteggerci con il suo ombrello atomico? Forse, in qualche modo, ma Trump ha già detto chiaro e tondo che gli europei devono mettere mano al portafoglio e investire maggiormente nella loro sicurezza. Qui si pongono molteplici problemi e qui, paradossalmente, si cela la maggiore chance di una rinascita politica dell’Europa.

I problemi non sono solo economici ma anche etici e politici. Economicamente parlando, nessuno osa rivelare (l’abbiamo letto su Le Grand Continent) che gli Stati europei, cumulativamente, spendono già oggi in armamenti tre volte tanto rispetto alla Russia e assai più della Cina. Si impone a questo punto, tuttavia, una scelta previa di indirizzo di fronte al presunto teorico bivio esercito europeo/coordinamento tra eserciti nazionali.

Non pare dubbio che l’opzione di gran lunga preferibile sia la seconda, purché accompagnata dallo sviluppo di una forte interoperabilità, da un acquisto rigorosamente europeo (senza l’illusione di affrancarsi ipso facto dalla dipendenza di tutti gli eserciti europei dagli armamenti USA) e ovviamente da un centro di comando unitario. Sempre dal punto di vista economico, c’è chi non nasconde (si chiama Emmanuel Macron, in coppia con il collega britannico Starmer) che il riarmo potrebbe rappresentare uno spunto di reindustrializzazione, qualora coordinato tra Stati e finanziato fuori budget (copyright by Ursula von del Leyen). Ma ecco spuntare gli interrogativi etici.

Torna la grande scommessa: la Comunità Europea di Difesa

L’idea stessa che Stati indebitati e in genere afflitti da crisi economico-sociali investano copiosamente in armamenti sembra proibitiva. Dal punto di vista strettamente etico, tuttavia, ci sembra che occorra porre una distinzione tra Stati che si armano in funzione di una deterrenza e Stati che concepiscono il riarmo in chiave espansionistica e imperiale (di cui la Russia di Putin è l’esempio più a portata di mano). L’acquisto di armamenti in funzione dissuasiva ci sembra rappresentare una forma di legittima difesa, anche qualora contemplasse il possesso –oggi inevitabile- dell’arma atomica.

Infine, la questione politica. Sembra –a federalisti memori della storia europea- di ritrovarsi all’improvviso in quei mesi del 1954 quando l’Europa post bellica ai suoi primi passi scivolò sul gradino che sarebbe stato realmente la soglia dell’unità politica, la CED (ne abbiamo parlato nei nostri dossier sul federalismo, qui alla pagina 20 in particolare). La Comunità Europea di Difesa era stata concepita dai tre moschettieri della rinascita continentale, Schumann, Adenauer e De Gasperi (tre politici cattolici, e non per modo di dire) come il varco decisivo che avrebbe imposto la creazione di un vero primo nucleo politico unitario. Tutto naufragò di fronte al Parlamento francese (sembra averlo dimenticato quel Macron che suona oggi le fanfare di un’Europa unita militarmente) e da quel momento nessuno osò più riaprire la questione CED. Ed ecco che oggi, paradossalmente, la minaccia russa e il disimpegno americano rilanciano la scommessa.
 
Qualche nota sommaria sul nostro continente. Qui al Federalista siamo tra coloro che ardiscono nutrire qualche residua speranza sulla possibilità di un risveglio europeo. Ancora una volta, prevedere le mosse dell’esagitato inquilino della Casa Bianca è impossibile. Anche a proposito del destino della NATO. Continuerà Washington a proteggerci con il suo ombrello atomico? Forse, in qualche modo, ma Trump ha già detto chiaro e tondo che gli europei devono mettere mano al portafoglio e investire maggiormente nella loro sicurezza. Qui si pongono molteplici problemi e qui, paradossalmente, si cela la maggiore chance di una rinascita politica dell’Europa.

I problemi non sono solo economici ma anche etici e politici. Economicamente parlando, nessuno osa rivelare (l’abbiamo letto su Le Grand Continent) che gli Stati europei, cumulativamente, spendono già oggi in armamenti tre volte tanto rispetto alla Russia e assai più della Cina. Si impone a questo punto, tuttavia, una scelta previa di indirizzo di fronte al presunto teorico bivio esercito europeo/coordinamento tra eserciti nazionali.

Non pare dubbio che l’opzione di gran lunga preferibile sia la seconda, purché accompagnata dallo sviluppo di una forte interoperabilità, da un acquisto rigorosamente europeo (senza l’illusione di affrancarsi ipso facto dalla dipendenza di tutti gli eserciti europei dagli armamenti USA) e ovviamente da un centro di comando unitario. Sempre dal punto di vista economico, c’è chi non nasconde (si chiama Emmanuel Macron, in coppia con il collega britannico Starmer) che il riarmo potrebbe rappresentare uno spunto di reindustrializzazione, qualora coordinato tra Stati e finanziato fuori budget (copyright by Ursula von del Leyen). Ma ecco spuntare gli interrogativi etici.

 

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