La vicenda del WhatsApp del giudice, rischia di diventare una potente arma di distrazione. Ci sono indizi di una crisi istituzionale più profonda
di Andrea Leoni
Il cardinale Richelieu affermava che gli sarebbero bastate sei righe scritte dal più onesto dei cittadini per trovare un motivo sufficiente per farlo impiccare. Un WhatsApp con umorismo sessuale da quarta media, finito non per sbaglio dai telefonini dei protagonisti alle pagine dei giornali, sembra bastare e avanzare per la cacciata con disonore di un giudice. È tutto così semplice? E se è tutto così scontato perché il Consiglio della magistratura non è ancora intervenuto?
Prima di aggiungermi alla corposa fila di coloro che chiedono la testa di Mauro Ermani, mi piacerebbe saperne di più, capire il contesto. Perché il magistrato invia quel meme da bettola alla segretaria, presunta vittima di mobbing, in un momento, da quel che si capisce, in cui il clima era già pesante negli uffici del Tribunale? Di solito tali messaggini si scambiano con persone con le quali si è in confidenza e, si suppone, vi sia un goliardia complice e una consuetudine di corrispondenza (c'è solo quel messaggio sopra le righe? Qual era il tenore della chat prima e dopo quel meme?). Anche perché non serve essere giudici per intuire i possibili effetti collaterali del gesto, come poi avvenuto. E dunque qual è il motivo? Senso di onnipotenza, un errore, superficialità, sfacciataggine o, peggio, un’ulteriore angheria? Sarebbe utile una risposta, prima di giudicare.
Pur sforzandomi non riesco a condividere l’opinione di chi ritiene che l’invio stesso di quel messaggio, rappresenti un elemento sufficiente per accompagnare alla porta Ermani. Credo che se frugassimo nei telefonini di molti uomini di responsabilità e di potere, ma anche tra i giornalisti, rischieremmo d’imbatterci in simili sciocchezze. Ed è facile, facilissimo, seminare moralismo sui WhatsApp degli altri. Qui il contesto e l’intenzione sono tutto. E a dipendenza del contesto e dell’intenzione, vi è uno spettro di provvedimenti che va dal licenziamento in tronco al cartellino giallo.
Certo Mauro Ermani non è nuovo a un uso disinvolto del telefonino. Nessuno ha dimenticato i messaggini del tutto inopportuni, scambiati con il procuratore generale Andrea Pagani all’epoca della famosa bocciatura dei cinque procuratori, poi sanata dal Parlamento. Da quella vicenda emerse la figura di un magistrato che dominava l’intera giustizia ticinese come una sorta di “Re Sole”. Allora non era facile contestare Ermani e il fu Consiglio della magistratura. Scriviamo “fu” perché quel gremio venne giustamente azzerato, a seguito dell’esito di quella storia. Quando con il collega Andrea Manna ingaggiammo una dura battaglia giornalistica con i vertici della magistratura, ci venne fatto questo rimprovero: ma chi diavolo siete per contestare la crème della crème della giustizia ticinese? Rispondevamo: i magistrati sono esseri umani e non angeli caduti dal cielo perché troppo pesanti. Ergo, sono fallibili. L’attuale caos al Tribunale penale conferma questa ovvietà.
La vicenda, pur rilevante, del WhatsApp del giudice Ermani, rischia di diventare una potente arma di distrazione. Ci sono indizi di una crisi istituzionale più profonda che tocca alcuni delicatissimi gangli dello Stato. La giustizia, sia nel potere giudicante che in quello inquirente per quanto attiene il sistema di nomina dei procuratori, ma anche la polizia e i rapporti tra le forze dell’ordine e la magistratura. La vicenda dell’incidente di Norman Gobbi, comunque la si pensi, si protrarrà per i prossimi mesi, almeno fino al processo per i due poliziotti coinvolti. E l’esito di quel procedimento sarà uno spartiacque, sia sul piano politico sia per la procura e per la polizia. Poi c’è la storiaccia della demolizione dell’ex Macello dove, addirittura, si è dovuti andare davanti a un giudice per risolvere una disputa tra il procuratore generale Pagani e il comandante Cocchi (a causa del rifiuto da parte del capo della polizia di fornire delle carte al PG). Figure apicali delle nostre istituzioni che, normalmente, dovrebbero collaborare e sostenersi anziché ostacolarsi.
Tre indizi che fanno una prova? Presto per dirlo. Ma di certo ci sono elementi che suggeriscono la necessità di un’analisi sistemica, che parta dalle fondamenta, e non da singoli episodi, benché incresciosi. Con tutta la prudenza e la delicatezza che la faccenda impone e senza invasioni di campo: il rispetto del principio della separazione dei poteri dovrà essere un tarlo per chiunque sarà chiamato a mettere le mani nel ginepraio.