IL FEDERALISTA
Il ritorno degli imperi
Le grandi potenze tornano a dominare il mondo con minacce e guerre, spartendosi le rispettive aree di influenza nel disprezzo di ogni forma di diritto internazionale

di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato si ilfederalista.ch

Difficile negare che la minaccia “infernale” di Donald Trump abbia avuto un effetto dissuasivo su chi, da una parte e dall’altra, avrebbe continuato a rinviare il cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi. Ma si impone una riflessione sulla logica neo imperiale delle grandi potenze che tornano a dominare il mondo con minacce e guerre, spartendosi le rispettive aree di influenza nel disprezzo di ogni forma di diritto internazionale. Continua intanto e si aggrava di anno in anno la persecuzione violenta dei cristiani in tutto il mondo. In Africa la subisce un fedele su cinque, in Asia ben due su cinque.
 
“Dobbiamo ingoiare il nostro orgoglio e dire grazie a Trump”. Così, alla lettera, l’editoriale del quotidiano israeliano Haaretz (sinistra laica) del 16 gennaio, a commento del raggiunto cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Le minacce di provocare un ”inferno a Gaza” qualora non fossero stati liberati gli ostaggi israeliani entro l’Inauguration Day della sua presidenza, avevano rinnovato l’esclamazione che tutti (o quasi) abbiamo sulla bocca da anni, “Trump è matto”. Quelle minacce, a loro modo, si sono rivelate efficaci. Ma il “modo” –come vedremo- conta quanto l’efficacia.

Più utile che stracciarsi le vesti, comunque, è cercare anzitutto di interpretare i diversi messaggi che fanno da preludio a una nuova strategia di politica estera americana. E al contempo collocare le apparenti “spacconate” su Groenlandia, Panama e Canada, come le precedenti su Gaza e Ucraina, all’interno di un panorama mondiale dove ciò che il 1989 sembrava aver cacciato dalla porta, ovvero lo scontro tra potenze imperiali, sembra rientrato dalla finestra.

Infatti, allargando lo sguardo possiamo cogliere analoghi segnali che convergono sulla prospettiva di una ricostituita logica di equilibri tra aspiranti “padroni del mondo”. Un segnale proviene, specularmente e con calcolato tempismo, dal quel “mondo russo” che alimenta i sogni neo imperiali della Mosca putiniana. È di due giorni fa la “brutale intervista” di “uno dei consiglieri più influenti del capo del Cremlino, Nikolaj Patrušev” (così Le Grand Continent).

“L’Ucraina – è la prosa dell’assistente di Vladimir Putin e membro del Consiglio di sicurezza- potrebbe cessare di esistere quest’anno”. Dopo aver minacciato espressamente l’annessione di Moldavia e Stati baltici, “l’uomo più pericoloso della Russia” non nasconde come, a suo modo di vedere, “i negoziati sull’Ucraina debbano svolgersi tra Russia e Stati Uniti, senza il coinvolgimento di altri Paesi occidentali. Non abbiamo nulla da discutere con Londra o Bruxelles. La leadership dell’Unione Europea, ad esempio, ha perso da tempo il diritto di parlare a nome di alcuni dei suoi membri, come Ungheria, Slovacchia, Aus tria, Romania e altri Paesi impegnati nella stabilità europea e in una posizione equilibrata nei confronti della Russia”.

Al di là della rozza aggressività di Putin (che per i suoi disegni imperiali ha mandato a morire centinaia di migliaia di giovani russi, nonché migliaia di miserrimi nord coreani trattati come carne da… drone), non dobbiamo dimenticare che al tavolo di spartizione di questa nuova Yalta basata sulla pura forza e sul do ut des, siede anche la Cina di  XI Jinping, i cui metodi appaiono piuttosto simili al nuovo stile americano: offrire vantaggi commerciali e minacciare le maniere forti per ottenere il ritorno di Taiwan a Pechino.

Prima di mettere a fuoco la portata dei cambiamenti in atto nella concezione dei rapporti internazionali, torniamo brevemente sulle avvisaglie della nuova politica estera trumpiana.

Tutti vorrebbero la Groenlandia

Già molte analisi in questi giorni hanno aiutato a contestualizzare l’uscita di Trump (“Gli USA hanno bisogno di incorporare la Groenlandia, la compreremo”) che, al di là della spregiudicata immediatezza, non fa che ribadire l’interesse americano per quest’isola (grande 50 volte la Svizzera, 2 mio di kmq, e popolata da 57mila abitanti, tanti da riempire uno stadio di media grandezza), riserva energetica in gran parte inesplorata, fonte di minerali rari necessari per alimentare la rivoluzione industriale in atto.

Interesse a mettere le mani su questa gelida sconfinata periferia del mondo non hanno manifestato soltanto gli USA, che già nel 1867, nel 1910 e nel 1946 tentarono di acquistarla, bensì –guarda caso- anche la potenza loro attuale rivale per eccellenza, la Cina appunto, che assorbe circa ¼ delle esportazioni dell’isola, costruisce aeroporti e acquisisce diritti per lo sfruttamento di miniere su suolo groenlandese (di uranio, in particolare). “Credo che Donald Trump abbia voluto lanciare segnali alla Cina”, ha intuito la nuova e perspicace Alta Rappresentante dell’UE per gli affari esteri Kaja Kallas.

D’altronde anche i danesi -colonizzatori a suo tempo poco cortesi della Groenlandia, cui concedono oggi grande autonomia politica-, non hanno affatto reagito con indignazione alle dichiarazioni di Trump, concedendo che sarà il popolo degli Inuit a decidere del proprio destino. Anche perché tra Copenaghen e Washington intercorrono ottimi rapporti politici e una collaborazione strettissima a livello di intelligence, al punto da suscitare malumori e sospetti tra i partner europei.

In realtà l’importanza strategica dell’isola –basta uno sguardo alla cartina qui sopra per rendersene conto- è principalmente legata alla sua collocazione geografica, alle porte dell’Oceano artico. A ingigantire negli ultimi anni tale peso geostrategico hanno contribuito i cambiamenti climatici, allargando i periodi di navigazione delle rotte artiche, sia commerciali che militari. Padrona di queste rotte è, e non da oggi, la Russia, seconda vera destinataria –dunque- delle muscolose dichiarazioni trumpiane.

I nuovi imperi, il diritto internazionale e la libertà

Rivalità di interessi non più sottaciute ma esposte alla luce del giorno, robusti scambi di messaggi non sempre indiretti (torniamo con la mente alla “brutalità” dei suggeritori di Putin), mappature sfrontate di sfere di influenza: sono segnali che ci riportano –dicevamo- alla ricostituzione degli imperi, in un mondo dove è tornato a dominare lo scontro tra grandi potenze. Andiamo più a fondo?

Siamo di fronte a Stati imperiali che praticano relazioni bilaterali tendenzialmente fondate sulla propria convenienza, facendosi beffe in modo sempre più esplicito della diplomazia multilaterale. Anche perché le istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto del diritto internazionale, ONU in testa, si sono svuotate dall’interno, e non soltanto a causa della prepotenza e dei veti praticati dai “grandi”.

Occhio: non è per vezzo culturale o postura da legulei che qui si difende il diritto internazionale (e lo Stato di diritto); quando il diritto cede alla forza, evapora la libertà (e la democrazia vira verso autocrazia e dittatura). E doppio occhio: Xi (come Stalin) predica “Noi vi diamo la giustizia” e i monarchi sauditi “Eccovi il benessere”. Noi le vogliamo tutte e tre (o almeno le prime due)!

Se poi provassimo ad allargare l’orizzonte, ci accorgeremmo che in fondo anche grandi Paesi come l’India o le paperoniche monarchie del Golfo hanno le carte in regola per entrare a far parte di questo ristretto club di pre-potenti (sia pure in chiave -per ora- più regionale che globale), dove i criteri regolatori sembrano ridursi alla forza miliare e alla furbizia nel ricercare la massima convenienza nazionale.

Su questo ring senza più limiti di peso né esclusione di colpi si trova a sgambettare l’Europa (Svizzera compresa, a meno che noi si preferisca mettersi sotto la protezione del potente del momento), culla e paladina del diritto. George Washington, nel suo messaggio di addio alla Casa Bianca nel 1796, ammoniva gli Stati Uniti a non più “intrecciare il destino americano con quello europeo” perché così “si facevano dipendere la pace e la prosperità americane dalle ambizioni, dalle rivalità, dagli interessi, dagli umori e dai capricci dell'Europa”. Donald Trump sembra in procinto di completare lo sganciamento. Che fare? Neppure Lenin avrebbe la presunzione di saper rispondere. Meglio così. Ma pensiamoci su.

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